1977: La fantasia al potere: Radio Apache (Gaspare Nuccio)

 indiani (13)Questo articolo è riportato nel libro di Lucio Luca “Prove tecniche di trasmissione”, pubblicato nel marzo 2006 a Palermo dalle edizioni Sigma. Il suo autore Gaspare Nuccio ha avuto un ruolo di primo piano in Democrazia Proletaria ed è stato sempre presente nelle vicende condotte in nome di Peppino Impastato, dopo la sua morte. Va attribuita a Radio Apache la provenienza e il relativo acquisto del trasmettitore da cui è nata Radio Aut, dopo la breve vita di questa emittente.  (S.V.) Nella foto, relativa a una manifestazione di indiani metropolitani nel 1977 a Palermo, al centro, con la mano che copre gli occhi, Peppino Impastato

 Alcool, fumo e una buona dose di ironia. Ecco gli ingredienti della radio più pazza della città. “Apache” stava in un sotterraneo di Baida, un postaccio non troppo diverso dai covi dei banditi sardi. Il freddo nelle ossa, un po’ di ragazzi con il volto dipinto e tanto vino per scaldare i cuori. Erano gli indiani metropolitani, quelli della fantasia al potere, della risata che seppellirà il mondo. Personaggi suggestivi: si truccavano, ballavano, urlavano gorgheggi sconclusionati. Durarono poco, giusto il tempo di lasciare il segno. Uno degli animatori di quella radio fu Gaspare Nuccio, ex deputato nazionale della Rete e attuale dirigente della Margherita. Lui, “Apache”, la ricorda così

Cominciai a Castelvetrano, il mio paese, l’anno della maturità. Era il 1975, avevo appena compiuto 18 anni, per la prima volta andavo a votare alle amministrative. Ero molto impegnato politicamente, allo Scientifico stavo nel Consiglio d’istituto, mi riconoscevo nelle posizioni del Pdup, il Partito di unità proletaria, la sinistra più estrema. La radio dava la possibilità di ragionare su alcuni temi, quelli più sentiti dalla gente. Si denunciavano gli intrighi di palazzo, si accusavano i potenti. In un’epoca di grandi ideologie, si provava a fare le prime esperienze di informazione alternativa. Certo, l’intrattenimento occupava uno spazio non indifferente del palinsesto, ma avere un microfono a disposizione senza rischiare censure ti regalava un’adrenalina difficile da spiegare con le parole. Durò per qualche mese. Poi, come tutti i ragazzi di paese che finiscono il liceo, decisi di trasferirmi a Palermo per frequentare l’Università. Scelsi la facoltà di Medicina, una delle più politicizzate. Dal movimento studentesco a Radio Sud il passo fu breve. La sinistra aveva eletto quell’emittente come punto di riferimento, mi portarono negli studi di Baida, mi offrii di condurre una trasmissione. Il titolo, a ripensarci, era agghiacciante: “La malattia come conflitto”. Con me c’era quasi sempre Franco Ingrillì, un collega di facoltà. Ci eravamo ispirati alle idee di Anton Giulio Maccacaro, il padre della medicina preventiva. Il succo era questo: sulle malattie della gente stava fiorendo una grande industria, quella farmaceutica, quella dei baroni degli ospedali. Ecco, la malattia stava diventando un’occasione di conflitto tra le classi. C’era chi se la poteva permettere e chi, invece, non aveva nemmeno questo diritto. Lo dicevamo trent’anni fa, non bisogna dimenticarlo. Negli anni Settanta non erano molti quelli che si schieravano contro i poteri forti. Al Policlinico comandavano gli uomini  di Salvo Lima ma noi matricole non avevamo paura di esporci in prima persona, occupando le aule e parlando a ruota libera alla radio. Radio Sud era un laboratorio politico. Riuniva in sé le due anime del movimento: quella dei duri a tutti i costi, legati alle posizioni di Avanguardia e Autonomia, sempre pronti a menar le mani e a creare confusione durante i cortei. E la “destra” di Lotta Continua e del Pdup, quella che raccoglieva i compagni più moderati. Erano due filosofie di vita spesso contrapposte. Antonio Casano era il leader degli “integralisti”, Emilio Arcuri rappresentava l’area “perbenista”, più accomodante e disponibile al dialogo. Inutile dire che qualsiasi discussione diventava un pretesto per litigare: non hai idea di quante amicizie si siano frantumate per motivi che oggi, al solo pensiero, appaiono a dir poco banali. Questa spaccatura all’interno del movimento serve per spiegare la nascita di Radio Apache, un covo di matti che fece epoca. Apache viene fuori da una costola di Radio Sud. Ci eravamo stufati delle continue sedute di autocoscienza, volevamo riprenderci i nostri vent’anni, ci spaventava anche quella eccessiva militarizzazione che avevamo percepito nell’aria. C’era gente che aveva cominciato a usare le pistole, le molotov. Le Brigate rosse erano viste come un mito da imitare, una deriva sempre più pericolosa. C’era persino chi propugnava la scelta della clandestinità. La nostra risposta ai “soldati” della sinistra, sempre incazzati con il sistema, incapaci di vivere una realtà che non accettavano, fu l’ironia. L’obiettivo era cercare un punto di sintesi tra contenuto e creatività: credere ancora all’utopia proletaria ma con armi innocue, surreali, sconclusionate. A Bologna era nata Radio Alice, quella di “Lavorare con lentezza, senza fare alcuno sforzo, il lavoro ti fa male e ti manda all’ospedale, lavorare con lentezza,la salute non ha prezzo…”. C’era un disegno politico, quello di sabotare la produttività, ma anche un aspetto ludico, sdrammatizzante, senza regole. Ed era quello che ci interessava di più. Un pugno di amici, reduci dall’esperienza più “seria” di Sud, decise che era l’ora di aprire una Radio Alice anche a Palermo. Ernesto Pascale, Claudio Casaccio, Giancarlo Vizzini, il critico musicale Maurilio Prestia, i giornalisti Piero Melati e Sandro Tito, un uomo di sport come Giovanni Savasta: eravamo indiani metropolitani, quelli che nel ’76 avevano “dissotterrato l’ascia di guerra”, un misto tra comunisti militanti e “fricchettoni”, sì alla canna, no all’eroina, sì alla rivoluzione ma sempre con il sorriso. Ci accusarono di avere distrutto la sinistra. Per quelli di Autonomia eravamo solo dei mentecatti fumati e senza credibilità. Noi, invece, ci divertivamo come pazzi e quel fantastico giocattolo che fu Radio Apache lo sfruttammo fino in fondo, anche se per pochi mesi. Le prime trasmissioni partirono da Baida, dagli stessi studi che furono di “Pal”, una delle prime emittenti palermitane. Tanto che Gianantonio Ferreri, proprietario di quella radio, mise a disposizione anche il trasmettitore. Eravamo considerati dei pericolosi estremisti, ma si poteva avere paura di quattro folli che dai microfoni diffondevano il verbo “rolla, rolla, non smettere di rollare se vuoi lo spino a prezzo popolare”? Tanto per capirci, io ero uno dei leader della tribù Nuvole Rosse. Rosse come comunisti, nuvole come il fumo emanato dalle canne. Andavo in giro con una bandana, lafaccia dipinta e, con gli studenti di Geologia che avevano fondato la tribù dei Lupi, passavo le notti a scrivere sui muri: “Lupi cercano lupe per fare lupetti “. Pericolosi noi? Ma dai, non scherziamo. Certo, ogni tanto ci scappava qualche bestemmia in diretta, “A… Dio non ci crediamo più, vivaviva Manitù”, ma era soprattutto un rifiuto delle imposizioni, la scelta di improbabili divinità indiane piuttosto che quelle convenzionali dei benpensanti. Avevamo vent’anni, fumavamo hashish dalla mattina alla sera e ci stonavamo di vino sfuso. C’era uno slogan che ripetevamo spesso quando ci andava di bere; “Qual è la via per la fiaschetteria? La coca cola è solo un’illusione, super alcolici per la rivoluzione”. Eravamo quelli che all’università, il giorno degli esami, si presentavano in aula con palloncini colorati e scritte allucinanti, del tipo “Ridola sei tutto mio”. Ridola era il temutissimo professore di anatomia, una specie di pericolo pubblico numero uno degli studenti. Uno che ha stroncato sul nascere la carriera di migliaia di futuri medici. Prenderlo in giro era l’unico modo per “vendicarsi”. E fummo noi quelli che una notte rubarono decine di provette dai laboratori del Policlinico soltanto per costruire un narghilè e imbottirlo di marijuana. Ecco, si poteva avere paura di gente del genere? La nostra politica era trasgressione, quasi una risposta non violenta alla cultura che avevamo respirato per tanto tempo nei collettivi di partito, negli attivi comunisti, che traspariva nei deliranti comunicati distribuiti lungo i viali dell’università. Con il senno di poi posso dire che la voglia di sorridere ha salvato molti di noi dal baratro della lotta amata, dall’incubo della droga pesante. Pensa alla stessa scelta del “fumo” contro l’eroina: il rito collettivo della canna contro la tragica risposta individuale del “buco”. Il cazzeggio allo stato puro contro la solitudine, il degrado fisico e morale. Fu così che a Radio Apache confluirono anche gli scontenti di Lotta Continua, poi fu la volta dei Radicali. Politica, certo, ma anche musica nel palinsesto di quella coraggiosa emittente. L’ordine era stato perentorio: si può ascoltare di tutto tranne che la disco. Maurilio Prestia era un patito dei cantautori impegnati. Giovanni Savasta, uno dei pionieri della pallavolo palermitana, amava il pop e trasmetteva per ore i pezzi dei Jethro Tull, Bob Dylan, Cat Stevens, Tim Buckley. Anche la musica italiana, quella cosiddetta impegnata, era molto richiesta dagli affezionati di Radio Apache: la Pfm, il Banco, Guccini, De Andrè. Piero Melati, invece, adorava il rock, dai Genesis ai Jefferson Airplane, da Janis Joplin a Jimi Hendricks. Ricordo che una notte fece lo scoop: mandò in onda un vinile di prova di “The dark side on the moon” dei Pink Floyd, una traccia inedita che si era procurato grazie ad alcuni amici americani. Chissà dov’è finito quel disco? Conoscendo Piero, oggi vice capo redattore di Repubblica, l’avrà sicuramente conservato da qualche parte. Una volta mi raccontò che il primo giorno di trasmissioni, Radio Apache lo dedico allo sgombero di Radio Alice da parte della polizia. C’era un compagno che al telefono raccontava in diretta le fasi dell’irruzione dei poliziotti, la resistenza, le manganellate. Stiamo parlando di qualcosa avvenuta trent’anni fa, senza mezzi, con una tecnologia a dir poco improvvisata. Non esisteva nemmeno il fax, figuriamoci i computer, i cellulari, Internet. Fu una pagina di grande giornalismo della quale, giustamente, Piero e gli altri vanno fieri. Eravamo un corpo a parte nel mondo radiofonico palermitano, e infatti non durammo. Non c’era una lira: fummo clamorosamente sconfitti da una bolletta dell’Ene[ che nessuno aveva i soldi per pagare. Quando arrivarono gli operai per tagliare la luce, “Apache” non esisteva più. Ma quei mesi, per tanti di noi, sono un ricordo impossibile da cancellare

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