Punta Raisi: le lotte per la terza pista

 

Punta Raisi: le lotte per l’esproprio delle terre

 

1968: Da tempo si ventilava la ipotesi della costruzione di una pista, che doveva servire per l’atterraggio nelle giornate di scirocco. I primi rilevamenti vennero fatti nella massima segretezza. Anche la procedura d’esproprio, d’intesa con l’amministrazione comunale, venne avviata sen­za pubblicità alcuna. La legge borbonica, che ancora oggi regola le procedure sulle espropriazioni per pubblica utilità, prevede che la delibera sia ap­pesa all’albo e che contro di essa ci si possa appellare entro quindici gior­ni: nessuno vide mai quella delibera e nessuno si appellò. Così un giorno, mentre tutti eravamo ignari di tutto, comparvero i tecnici per le rilevazioni ufficiali. Si formò allora, sotto l’egida del PCI e del PSIUP, un Consor­zio Espropriandi, con l’obiettivo di evitare gli errori commessi al­l’epoca del primo esproprio. Stavolta la zona era diversa: vi lavoravano circa duecento famiglie, con una conduzione familiare delle aziende agricole: gran parte vi soggiornavano in permanenza, altri vi si recavano nel periodo estivo, data la vicinanza del mare e la bellezza selvaggia delle coste. Tut­ta la zona era ricca di alberi, di frutta, di agrumeti e di uliveti. La produzione ortofrutticola costituiva il residuo polmone dell’economia del paese, anche se, per la speculazione che sui prodotti compivano proprietari, grossisti e mafiosi, i contadini ne ricavavano quel tanto da sopravvivere.

I rilevamenti vennero osteggiati dai proprietari, ma la procedura seguì il suo iter: il progetto venne cambiato per quattro volte, poiché presentava errori tecnici grossolani, ma questo non era fondamentale: im­por­tava di più chiudere la zona e militarizzarla in modo da riservare la costa alla villeggiatura degli aeroportuali e lasciare le carte in mano a chi volesse speculare sulla vendita dei terreni residui.

I contadini, gli stessi tecnici, notarono come la pista non avrebbe mai potuto servire allo scopo, poiché lo scirocco aggira le montagne e si infiltra dalle gole, creando pericolosi vuoti d’aria. Non servì a niente. L’im­presa venne condotta tra un mare di illegalità vergognose, con brutalità e decisione. Significativa, in quel momento, l’azione di Peppino Impastato, che davanti all’alternativa di ottenere un compenso provvisorio per i terreni, sostenuta dal Consorzio Espropriandi e quella di lottare direttamente contro la costruzione della pista, propose questa seconda via, ap­poggiato dalla maggioranza dei contadini. Furono organizzate due manifestazioni: nel corso di una di queste alcuni giovani, tra cui anche Pep­pino, vennero denunciati per organizzazione di manifestazione non autorizzata. La vicenda è ricostruibile da un documento dell’epoca, scritto nel tipico linguaggio marxista-leninista.


Dopo l’esproprio anche i processi per i contadini di Punta Raisi

L’ignobile processo di pretura che i giovani e i contadini di Punta Raisi sono stati chiamati ad affrontare ha definitivamente smascherato la collusione dei revisionisti con le forze repressive e ha dato l’ultima e più nauseante conferma del modo in cui la dittatura borghese risolve i diritti e le condizioni delle masse, cui ha tolto terra e lavoro, dando in cambio fame, emigrazione e condanne.

La questione dei contadini di Punta Raisi ormai si agita da dieci anni senza soluzione e sempre con continui aggravamenti, l’ultimo dei quali è stato provocato dalla costruzione della terza pista.

Seguendo la sua prassi consueta, lo Stato ha buttato tutti i proprietari fuori dalle loro terre, con un decreto d’occupazione temporanea, il quale praticamente sancisce, per il margine di due anni, l’esproprio totale dei terreni senza il relativo pagamento di essi.

Le lotte dei contadini, sostenute dal nostro gruppo, hanno incontrato la continua opera di disgregazione e di tradimento perpetrata dai revisionisti.

Nel corso di una di queste lotte, culminata in una manifestazione spontanea di massa, che vedeva un nucleo di circa trecento giovani e contadini salire dalle campagne in paese, per protestare contro l’assurdo progetto di costruzione della famigerata terza pista, le forze repressive denunciavano tre giovani e due espropriandi con l’imputazione di avere organizzato la manifestazione e di avere gridato frasi sovversive, come: “Terza pista a mare!” “Pista sì, fame no”, “No agli espropri illegali” e di non avere ottemperato all’ordine intimato di scioglimento.

Il processo, svoltosi in data 13/3, si è gradatamente trasformato, mer­cè  l’abile difesa del compagno Leon, di Soccorso Rosso, in una delle solite buffonate dello stato borghese.

Completamente ridicolizzato è stato l’operato di denuncia del locale maresciallo dei carabinieri, del quale Leon ha detto che “sarebbe stato un cattivo funzionario anche nel periodo fascista”.

Uno degli accusati ha detto testualmente: “Sono stato buttato fuori dai miei terreni, ho dovuto vendere le mie bestie a prezzi da fame, avete mandato la polizia a caricarci e ora ci processate come volgari delinquenti”.

Tutto questo però non è servito a ridurre a più miti propositi la volontà del pretore il quale, scagionando gli imputati dall’accusa di partecipazione a manifestazione non autorizzata, perché il fatto non costituisce reato, li ha condannati a un mese di carcere e al pagamento di 12.000 lire di ammenda per l’accusa, indimostrata, di non avere ottemperato all’ordine di scioglimento intimato.

L’avvocato Leon ha fatto notare che l’ordine non era valido perché non preceduto dai tre squilli di tromba previsti dalla legge suscitando le furie del maresciallo, che era sprovvisto di tromba e non la sapeva suonare: pertanto gli accusati sono andati in appello.

Tuttavia il fatto notevole di questa sentenza è stato dato dallo scagionamento totale del vicesegretario del PCI di Cinisi, grazie alla favorevole deposizione del maresciallo: è questa l’ultima ed evidente prova dell’intesa revisionista-borghese, tanto più che i revisionisti accusati hanno negato la loro adesione di solidarietà alla manifestazione.

Con questi sistemi lo stato capitalista dimostra, in ultima analisi, che è più importante una pista trasversale, anziché la vita di trecento famiglie contadine, che ha buttato sulla strada, e spera di imporre la sua linea di comando e di sfruttamento, non rendendosi forse conto di pronunciare, con la condanna di giovani e contadini, ogni giorno che passa, la sua definitiva condanna.


Gruppo Marxista-Leninista di Cinisi
 

C’era stato un momento in cui Peppino aveva proposto l’occupazione del Municipio: poteva essere una scelta storica, si scelse la via della pacifica dimostrazione, e fu la fine 3.

La denuncia delle illegalità non bastò. Gli avvocati Pomar e Cipolla del PCI rifiutarono la proposta di difesa legale con la motivazione che la pista si doveva fare comunque perché era una necessità. E la pista si fece. Le rilevazioni e gli accertamenti sulla consistenza dei terreni vennero condotti con l’assistenza di due funzionari regionali, dal momento che nessuno dei cinisensi si era prestato; questi fungevano da testimoni, nello spregio totale del D. L.19 agosto 1917, n. 1399, che prescriveva la residenza nel luogo d’esproprio per questi testimoni; per concludere si passò all’attacco armato, nella migliore tradizione di comportamento dello stato italiano nei riguardi dei problemi meridionali.

I contadini avevano predisposto un sistema d’allarme con bombole vuote di gas. Una mattina presto sentimmo suonare le bombole e tutti ci riversammo al limite dove iniziava la zona da espropriare. Vedemmo arrivare sulla pista dell’aeroporto circa trecento soldati e carabinieri, seguiti da un nugolo di motopale e attrezzi. Il tenente dei carabinieri di Partini­co, che guidava i militari, osservò con sufficienza le trecento persone riunite lì, a chiedere solo un modo di sopravvivenza e, rivolgendosi alle donne, esordì con atteggiamento provocatorio: «Le solite facce! Le lavandaie si stiano a casa». Uno dei contadini, Larenzu «u Spirdatu», raccolse imprudentemente, subito, il gesto di provocazione e, scavalcando il muretto che ci divideva dai carabinieri, afferrò il tenente gridandogli: «Lavandaia devi andarlo a dire a tua moglie». I soldati lo afferrarono per portarlo via, ma gli altri scavalcarono il muretto, riuscendo a togliere, a viva forza, Larenzu dalle mani degli sbirri. Il tenente provò ancora con un discorsino: «Ora ve ne tornate tutti a casa, buoni buoni, perché qui dobbiamo iniziare a lavorare».

Fu un coro di proteste: «Prima dateci i soldi», «In quale casa andremo, se ce la buttate giù?». A questo punto il baldo tenente perse la pa­zienza e diede ordine alle ruspe di procedere. Ci sistemammo tutti davanti alle ruspe, seduti per terra, in un atteggiamento muto, ma deciso. Le ruspe si fermarono quasi sopra i nostri piedi.

Fallito il progetto di spaventarci o convincerci, il tenente ordinò la carica ai suoi scherani. Fummo massacrati di botte, donne, vecchi, bambini. U zzu Luigi Rizzo, di 70 anni, svenne, colpito duramente alla testa e alle costole, e fu fatto ricoverare d’urgenza. Franco Maniaci, poi vice-sindaco di Cinisi, per avere detto «bastardo» a un carabiniere, venne portato via, e subito dopo processato e condannato per direttissima a sette me­si. Gli altri fummo sbattuti come oggetti inutili, ma non riuscirono a smuoverci. In serata ci recammo in delegazione presso il presidente della Regione Bonfiglio, il quale disse che il massimo che la Regione avrebbe potuto fare era di dare il 10 per cento anticipato sul valore dei terreni. Si­gnificava la fame. Il Consorzio decise di accettare l’accordo, mentre la maggioranza dei contadini si pronunciò per il proseguimento della lotta. L’indomani i tecnici si presentarono certi di cominciare tranquillamente il lavoro. Ci riunimmo in un centinaio, fermandoli. Quel giorno un esponente del PCI andò dal direttore dei lavori (ing. Mam­mì), riferendo che il Consorzio si era accordato e che a protestare erano rimasti solo un gruppo di facinorosi, manovrati da alcuni maoisti. In se­rata ci avvisarono che il giorno dopo era meglio non farsi vedere. An­dammo in pochi. In realtà fra un gran polverone, ci trovammo davanti a un esercito di soldati, carabinieri, agenti in borghese con macchine fotografiche, cani poliziotto, elicotteri che giravano sulla contrada, pronti per affrontare la guerriglia e la rivoluzione: e fu la fine. I carabinieri stessi erano turbati e sconvolti nel sentire l’acre odore dei limoni divelti, nell’assistere allo scempio che si fece di case, ancora arredate da tutte le suppellettili, nel vedere le lacrime di chi non aveva più casa né terra.

Dopo quattro anni si cominciarono a pagare i terreni, con prezzi dalle 200 alle 700 lire mq. Molti terreni risultavano all’ufficio catasto come seminativi, nonostante fossero coltivati intensivamente, perché nessuno si era mai preoccupato di regolare la situazione, e come tali vennero stimati e pagati. Per Cinisi fu la distruzione totale della sua struttura agricola. Di tutta quella gente è rimasto ben poco: li rivediamo tutti in una rassegna tragica di ombre. U zu Faru Agghiu, morto dopo un mese dall’esproprio, ci confidava: «Vedi, per me il Mulinazzu è la mia stessa vita. In paese non ho che fare e mi sento “accupatu” (oppresso). Qui lavoro, re­spiro aria pura e mi sento tranquillo. Se mi tolgono questo io muoio». Mo­rì dopo qualche mese, e sua moglie poco dopo di lui. U zu Peppi Muccuneddu, morto tre mesi dopo l’esproprio: è rimasto ancora là, con il fucile in mano, a cacciare quelli che volevano buttar giù la sua casa e il suo terreno; dei suoi figli uno è emigrato, l’altro si è cercato una sistemazione in un terreno vicino, fuori dall’esproprio. U zu Luigi Rizzo, rimasto acciaccato e sofferente per le botte ricevute in quello scontro; u Turcu, che non si è più vi­sto, costretto forse ad emigrare; Rocco Munacò, bracciante, costretto anche lui a lavori precari e a cercarsi sistemazioni sempre provvisorie; Peppino Puleo, costretto a riprendere l’attività di ciabattino; u zu Vitu u Checcu, disoccupato, con i figli emigrati; Nicolò Maltese, “u patri Cola”, morto dopo un anno, a za Grazia, sua moglie, morta poco tempo dopo di lui; u zu Vitu Biundo, morto.  Si dirà: erano vecchi. È in parte vero, ma è vero che un giorno solo di vita tolto ad essi rimane un crimine di stato che nessuno potrà mai ripagare né giustificare.

Come sapevamo da prima, quella pista non è servita a niente: nelle giornate di scirocco il traffico rimane sospeso e gli aerei stentano ad atterrare. Su quella pista di sangue sono rimasti i morti di crepacuore, gli emigrati, gli sbandati, i 350 morti di due aerei precipitati, i numerosi incidenti, le dichiarazioni dei piloti di tutto il mondo, che si rifiutano di atterrare, non riscontrando le condizioni minime di sicurezza.

Di quelli che eravamo in quei giorni siamo rimasti in pochi, espropriati non della terra, ma della stessa vita, spinti a guardarci in faccia senza riconoscerci se non come spettri di un sistema che parla di libertà e non sa nemmeno dove stia di casa la democrazia. Su quelle terre è stata avviata la massiccia opera di speculazione mafiosa del progetto Z-10, con un giro di 6 miliardi, la cui approvazione segreta Peppino Impastato aveva denunciato nei suoi ultimi giorni di vita. Su quelle terre sono ancora rimasti a seccare al sole i brandelli del corpo straziato di Peppino, a testimonianza di una vita che tutto aveva dato affinché gli altri continuassero a vivere con dignità di uomini. E niente altro.

(dal libro di Salvo Vitale: Peppino Impastato, una vita contro la mafia”)

 

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