IL PERCORSO DI UNA SOCIETÀ INTERCULTURALE (Piccini-Ginesi)

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Soltanto una lettura laica della storia dà la possibilità di aprire un percorso per giungere a quel pluralismo indispensabile nelle nostre società e arrestare il tentativo da parte del sistema di imporre una monocultura universale.

Un approccio laico di ogni problematica impedisce di chiudersi all’interno del proprio pensiero e visione del mondo e apre a spazi di idee e interpretazioni diverse. Si mette così a disposizione la propria lettura della storia perché ne venga utilizzato quanto può esser valido per il cammino della ragione e della coscienza verso mete condivise.

La laicità è un modo di essere, di vivere, di seguire e testimoniare le proprie scelte politiche, culturali, sociali, economiche, religiose.

È necessario avere una cultura laica per “appartenere” ad un’identità e “contaminarla” con le tante altre con cui si viene a contatto, conservando le reciproche diversità come ricchezza e occasione di crescita.

Cultura è l’insieme di valori, credenze, costumi, comportamenti, tradizioni, forme di organizzazione, modelli di giustizia, espressioni artistiche articolati intorno ad una peculiare cosmovisione di un gruppo, di una comunità, di un popolo. Appresi e trasmessi nel tempo, hanno avuto origine in un determinato spazio pur non essendone rimasti circoscritti, ma arricchiti in una diaspora continua.

Solo la laicità, come fondamento di ogni espressione dell’esistenza, garantisce società aperte che intrecciano le differenti culture dalle quali esce una realtà nuova e inedita, diversa in ogni luogo perché diverse sono le culture che entrano in contatto.

 

 

I rischi della globalizzazione culturale

La laicità è l’antidoto contro i rischi di una globalizzazione culturale che si basa su interessi economici e di potere.

La globalizzazione, come gran parte degli eventi storici, non è né buona né cattiva in sé, ma dipende dalle finalità che le vengono date, dagli obiettivi che si vogliono raggiungere, dal rapporto tra mezzi e fini perché, come diceva Gandhi, «il mezzo sta al fine come il seme all’albero».

Non intendo demonizzare un fatto che, al di là dei suoi aspetti negativi, presenta possibilità e strumenti in grado di portare cambiamenti positivi in vari campi e di coagulare le forze e le istanze migliori dell’umanità.

È un lungo elenco gravido di futuro: la conoscenza nel reciproco rispetto, l’uso di diverse lingue, scambi culturali e educativi, il contatto con espressioni artistiche a vasto raggio, la possibilità di comunicare con mezzi comuni e di (seppur relativamente) facile accesso, l’adesione in tempi anche brevi a progetti collettivi per soluzioni condivise a livello globale…

Si parla di una globalizzazione della solidarietà, della speranza, dell’“indignazione”, della lotta per la vita, della denuncia del potere, della difesa della natura, del diritto all’uguaglianza…

Questa è una faccia della medaglia, per ora minoritaria non tanto nel numero di chi coinvolge quanto nel “potere” di imporsi.

L’altra faccia rischia di globalizzare problemi e disastri attraverso ingiustizia, esclusione, sottomissione, sfruttamento, disuguaglianza, guerra, violenza… da cui (per ora) si “salvano” in pochi in una corsa verso “un suicidio collettivo” in cui «l’efficienza si trasforma in una concorrenza folle tra persone che tagliano, più in fretta delle altre, il ramo su cui sono sedute» .

La globalizzazione si presenta come un fenomeno dal quale nessuna società può sfuggire dal momento che i mass-media arrivano ovunque, le scoperte tecnologiche e scientifiche si diffondono dappertutto.

Con l’espansione del capitalismo, la globalizzazione produce trasformazioni a livello mondiale, in una visione totalizzante che vuol escludere di fatto ogni diversità o cammino proprio.

Relazioni e scambi internazionali sono sempre più ampi e, inevitabilmente, provocano cambiamenti a grande scala, ma questo non deve entrare in conflitto con diversità o cammini peculiari nel tentativo di annullare le differenze per creare/imporre una uniformità dove il potere può agire indisturbato in ogni angolo del pianeta.

E ciò interessa, ovviamente, anche l’ambito culturale.

Quando costumi, tradizioni, espressioni di differenti comunità entrano in contatto può crearsi uno scambio di valori, che arricchiscono senza fondersi e senza annullarsi l’una nell’altra… ma proprio questo va contro i piani del potere economico-politico.

C’è un tentativo di globalizzazione culturale intesa come un processo di assimilazione delle culture da cui abbia origine una cultura omogenea, senza variazioni.

Una forte corrente sorta all’interno del mondo neoliberale mira a cancellare le differenze per giungere ad un “nuovo cosmopolitismo” che, di fatto, unifica, meglio “confonde”, le diverse identità culturali per giungere, nella peggiore delle ipotesi, all’uniformità del pensiero unico, all’imposizione del “politicamente corretto” dell’attuale geopolitica mondiale.

Si attivano meccanismi su vari fronti per unificare le diverse identità culturali verso un’omologazione che permetta di costruire una “nuova” identità uguale per tutti, in tutto il mondo, nella quale nessuna società si può riconoscere: una cultura più “virtuale” che reale. Si diffondono così culture “ibride” senza un passato e con uno sterile presente.

Il pensiero neoliberale si presenta addirittura come difesa di diritti umani di carattere universale; in loro nome esclude e combatte gli elementi peculiari delle diverse culture che devono “scomparire” per aderire a questa (presunta) universalità, devono “sciogliersi” all’interno di culture che non li rappresentano e di cui non fanno parte.

In nome del diritto ad uno sviluppo universale, che (si afferma) garantisce la pienezza dell’esistenza per l’umanità intera, si introducono atteggiamenti di esclusione, dominazione e imposizione che giungono, nei casi più gravi, a fenomeni di etnocidio: vedi le colonie di tutte le potenze, i paesi latinoamericani fin dai tempi della conquista spagnola e portoghese, gli “indiani” “nordamericani”; l’apartheid più o meno scoperto in ogni continente; la strumentalizzazione di tensioni tribali per imporre governi fantoccio agli ordini di poteri politico-economici stranieri…

In nome di non meglio identificati diritti umani universali, si creano le premesse a situazioni di disuguaglianza, di sottomissione da un’ideologia egemonica globale, nell’ottica della globalizzazione capitalista che si serve di ogni mezzo per accrescere i propri profitti e potere.

Si difende questa “espansione” affermando che i contatti, favoriti da un’infinita varietà di interconnessioni, creano l’inserimento del “globale” nel “locale”.

Una profonda differenza esiste, però, tra inserimento e omogeneizzazione culturale: il “locale” non può annullare i suoi valori nel “globale” con l’inevitabile perdita di potenzialità e ricchezza.

L’omogeneizzazione è il mezzo per imporre la logica del sistema attuale. Per raggiungere questo obiettivo si colpisce la creatività dei popoli e se ne spezza lo sviluppo nella linea dei valori tradizionali, in grado di offrire soluzioni diverse e creative ai vari problemi… e non solo locali .

Attraverso la propria cultura, ogni persona prende coscienza di se stessa e del mondo che la circonda dove opera, insieme agli altri, secondo ritmi, teorie e prassi che hanno radici nel presente per costruire un futuro in continuità con il passato, nell’evoluzione di ogni generazione, all’interno di situazioni mondiali in continua trasformazione.

Far tesoro delle culture con cui si entra in contatto è ben diverso da questa inquietante tendenza all’omogeneizzazione, sotto il predominio delle culture dei paesi economicamente più potenti.

Se la globalizzazione culturale fosse un fattore “naturale”, come si afferma dai centri di potere politico-economico, non si comprende perché gruppi sociali esclusi o che si rifiutano di accettare questo tipo di globalizzazione vengano emarginati e le loro posizioni e proteste criminalizzate.

E non sono casi sporadici. Basta pensare alle centinaia di persone perseguitate, soprattutto nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, alle numerose categorie (mondo contadino, indigeni, difensori della Terra, attivisti dei diritti umani, promotori culturali…) che rifiutano come estraneo alla cultura dei loro popoli questo tipo di sviluppo.

Per dar forza alla loro azione e denuncia, molti gruppi sociali di ogni continente si uniscono in reti sempre più vaste per lottare contro “questa” globalizzazione e presentano proposte alternative in risposta ai valori inerenti alle culture locali per rivalorizzare quanto è loro specifico, senza per questo chiudersi a quanto di positivo e valido offrono esperienze, proposte, percorsi diversi in lungo e in largo nel mondo.

L’aumento del numero di scontri di gruppi che rivendicano i loro valori sociali, culturali, politici, religiosi, contro quelli che si vogliono imporre con la globalizzazione, apre pesanti interrogativi sulla concentrazione della ricchezza e la conseguente sempre più ampia breccia tra paesi “sviluppati” e “sottosviluppati”.

 

È inevitabile, allora, una domanda: quando e perché è sorta l’esigenza di una globalizzazione culturale?

La globalizzazione è avvenuta su parametri economici, di conseguenza sono questi che tracciano la rotta anche di una globalizzazione culturale, nel tentativo di annullare la forza, l’importanza, la creatività, la fecondità delle varie espressioni.

La relazione tra sociale e culturale, nel processo di globalizzazione che si è affermato, si lega strettamente ai rapporti capitalisti di produzione, alla diffusione del mercato, a interessi finanziari.

Ogni paese finisce per dipendere dalle potenze mondiali che perseguono, nel migliore dei casi, i loro interessi nazionali e non una crescita dell’intera umanità su un piano di uguaglianza e di rispetto della dignità di ogni uomo e donna. L’obiettivo è una “normalizzazione” delle espressioni culturali e dell’immaginario collettivo non secondo logiche culturali, ma economico-finanziarie.

Non sorprende, infatti, che uno dei primi passi di “adattamento” alla cultura globale è l’adesione a pratiche di consumo corrispondenti alle nazioni capitaliste con la diffusione di modelli che non rappresentano gran parte dei paesi del pianeta.

Si riduce la diversità culturale e s’impongono prodotti, simboli, oggetti delle nazioni più influenti del mondo.

Il consumo di quanto viene prodotto in un paese “secondario” viene sempre più ignorato, ritenuto a priori inferiore e superato, con una progressiva dipendenza dall’importazione non solo di merci ma di stili di vita che, inevitabilmente, lasciano ai margini gran parte della popolazione con il risultato, sempre più evidente, di una maggiore disuguaglianza sociale, economica, di partecipazione politica.

La globalizzazione voluta dal capitalismo per aumentare produzione, commercio, consumo, profitto usa il termine “culturale” per nascondere i veri obiettivi e per ampliare le opportunità del grande capitale.

I paesi con forte potenziale finanziario s’impongono sulle economie “minori” generando uno squilibrio, e non solo economico, diffondendo stereotipi, percepiti come segni di sviluppo, mentre la breccia tra i paesi (e al loro interno) si allarga sempre più.

Nella cosiddetta cultura “comune” che si sta configurando con la sovrapposizione e imposizione di culture estranee, con la perdita delle identità culturali dei gruppi minoritari, il mondo diviene più povero a tutti i livelli, meno libero, nelle mani di poteri forti che, proprio grazie all’omologazione culturale, sottomettono ai loro interessi persone, comunità, popoli, ambiente naturale.

Dinanzi alla situazione attuale, non si può parlare di “cultura di carattere globale”, ma di “appiattimento” a livello globale, di annientamento e distruzione di uno dei diritti umani essenziali: la libertà di scegliere, di difendere il proprio pensiero e modo di vita, i propri valori; in una parola, si cerca di annullare l’identità culturale inserita in un percorso di confronto, contatto, crescita affinché le varie società si “assomiglino” sempre più, divengano “intercambiabili”, mentre la cultura locale viene ridotta a poco più di un fatto folkloristico.

La disuguaglianza sociale ha limitato l’uso e l’accesso a risorse educative, formative, tecnologiche, economiche di molti gruppi sociali in situazione di povertà, cancellando di fatto quella “cultura globale” di cui tanto si parla.

Si può parlare di “cultura globale” solo in situazioni di parità tra il peso dei diversi paesi: la rinuncia (più o meno imposta) alla propria cultura rappresenta la sottomissione ad una “colonizzazione” tra le più pericolose e gravide di conseguenze negative per la maggior parte dell’umanità, per la storia presente e futura dell’umanità.

 

La società multiculturale

Basta camminare per le strade di ogni angolo di mondo per comprendere che le nostre società sono multiculturali… nessuno può negare la presenza di differenti culture nel proprio territorio.

Nel momento in cui queste diversità vengono a contatto nulla rimane uguale a prima, per quanti muri mentali si tenti di creare.

Del resto, molto meno di questa presenza, ormai continua e diffusa, modifica prospettive e vedute, come, ad esempio, venire a contatto di un libro e di altre espressioni artistiche, condividere un’analisi culturale nata in altri contesti; ma ci cambia inevitabilmente anche conoscere un cibo, una canzone, una leggenda, una cosmovisione diverse o estranee al nostro abituale modo di vivere.

È inutile chiudere gli occhi e la ragione, la presenza dell’altro e della sua identità trasforma qualcosa della nostra percezione del mondo e della storia.

È un fenomeno non legato soltanto all’immigrazione ma anche ai diversi rapporti di produzione e di lavoro, agli scambi culturali che coinvolgono soprattutto i giovani, la “mobilità” di studenti universitari e no attraverso accordi tra istituzioni di diversi paesi (come ad esempio il programma Erasmus), alla sempre più vasta estensione dei mercati, all’accesso a livello mondiale di sistemi informatici e dei social network…

Questo dato di fatto, però, non impedisce che la coesistenza di differenti culture in un territorio susciti reazioni discordanti e opposte, fenomeni di rifiuto ed esclusione.

Accanto alla diffusione dell’indifferenza, alla chiusura nel proprio privato per “difendersi” da ogni novità, crescono (fomentate da una sempre più diffusa disinformazione) la reazione istintiva, il rifiuto irrazionale segnato da intolleranza, razzismo, xenofobia, ignoranza che raggiungono incredibili livelli di assurdità . Si diffonde così una società sempre più chiusa, dominata da pregiudizi e menzogne, congeniale al sistema che la manipola ai propri fini.

Il termine multiculturale esprime semplicemente una realtà, un dato di fatto constatabile, un termine prevalentemente descrittivo: si prende atto della molteplicità di culture in un determinato spazio senza che debbano esistere relazioni tra di loro; si accetta l’evidenza di una pluralità di culture che coesistono in uno stesso territorio senza necessariamente comunicare; si possono creare comunità isolate senza o con pochissimi contatti con la realtà locale.

Le diverse culture possono vivere parallele, possono ignorarsi e non incontrarsi mai.

Il prender coscienza della presenza di “altri” da noi, non significa riconoscere i diritti di chi ha culture diverse, anzi è spesso evidente il tentativo (o la pretesa) di assimilarle alla cultura “locale”. Si vorrebbe imporre agli “stranieri” di “adattarsi”, di “conformarsi”, ben diverso dal rispetto delle leggi del paese in cui vivono.

In questa ottica sono spesso inevitabili tensioni e conflitti perché una delle culture diviene dominante e si impone (per lo meno tenta di imporsi) alle altre che vengono escluse di fatto da una reale presenza nella società; si finisce per creare steccati e muri, si genera ostilità, emergono intolleranza e atteggiamenti aggressivi.

Le minoranze etniche, culturali, sociali, economiche sono viste molte volte come una minaccia alla stabilità politica di una nazione.

Il pluralismo delle nostre società viene così, di fatto, negato.

In molti casi si sono formati dei “feticci identitari” che nascondono interessi essenziali per conservare ed ampliare il consenso; “feticci” utili al sistema di potere per manipolare la cosiddetta “opinione pubblica” creando il “nemico” contro cui scatenare istinti irrazionali che tengono lontani da capire, informarsi e reagire, nascondendo così i pro-blemi reali.

Ci si rifà a tradizioni e costumi come se fossero essenziali alla vita stessa, al fatto stesso di vivere.

La difesa dell’identità nazionale ha preso toni da “guerra di religione”, come cosa “sacra”, con il conseguente fanatismo e assolutismo, senza che vengano mai esposte chiaramente ragioni e posizioni; una forma che richiama il “dio lo vuole” dei momenti di lotte politiche mascherate da difesa dei diritti e del volere di dio.

La cultura è vista come un insieme di valori inviolabili e immutabili che si tramandano da una generazione all’altra e non si possono cambiare, è “pericoloso” cambiarli, per non correre il rischio di annullarsi in culture estranee a noi che “obbligherebbero” ad acquisire il modo di vita di altri mondi.

Per anni ci si è limitati a parlare di società multiculturali, ma con il tempo si è diffuso e approfondito il concetto di società interculturali, aprendo così un acceso dibattito circa il significato di due termini identità – intercultura, viste, nella lettura che se ne fa in ambienti chiusi e timorosi ad aprirsi al nuovo, come due realtà in antitesi, contrastanti, che si eliminano a vicenda.

 

La società interculturale

La propria comunità di appartenenza ci “identifica” in un sentire comune in cui troviamo la nostra identità, ma non deve chiuderci.

Nella continuità del proprio processo culturale, s’intrecciano valori diversi che contribuiscono a creare habitus di scambio, condivisione, percorsi comuni per una convivenza aperta, universale; il contatto con culture diverse permette di uscire dalla routine che rischia di soffocare nell’ovvio e nell’abitudine ragione, coscienza, dubbio, ricerca.

Se non ci si lega a modelli prestabiliti, ritenuti immutabili, si scopre una realtà diversa che avanza lentamente, che ci interpella, che fa accumulare forze per costruire un mondo più vicino a quello in cui desidereremmo vivere.

Questo significa costruire una società interculturale, indispensabile per affrontare e sconfiggere discriminazione, razzismo, esclusione e formare cittadini coscienti delle differenze, capaci di lavorare insieme per lo sviluppo del paese e la costruzione di una reale democrazia.

L’intercultura è un progetto di convivenza di culture diverse in un piano di uguaglianza, di coesistenza, di rispetto reciproco che apre ad interazioni dinamiche e positive per condividere le differenze e arricchirsi a vicenda.

Nella società interculturale cresce l’uomo libero da pregiudizi, da idee tramandate e accettate passivamente; non soggetto ad alcun autoritarismo, critico verso il potere che si arroga la facoltà di decidere per lui.

Si crea una sinergia contro preclusioni, chiusure, preconcetti nel rispetto delle diversità, dove ogni persona ha il diritto di essere come desidera.

Intercultura è un metodo oltre che un valore; un’interazione dinamica che si realizza attraverso il dialogo, il confronto in un rapporto di interdipendenza reciproca che ha radici nella storia dell’umanità.

È un cammino permanente di relazione, di apprendimento tra conoscenze, valori, tradizioni, visioni del mondo differenti per un pieno sviluppo degli individui e delle varie comunità al di là di differenze culturali e sociali.

La società interculturale non esiste ancora nella sua pienezza, è un processo da portare avanti attraverso pratiche e azioni sociali concrete e coscienti: una convivenza armonica per raggiungere “l’unità nella diversità”, un percorso che non vedrà mai un punto d’arrivo definitivo.

L’intercultura ha una valenza progettuale e rimanda ad un impegno comune come consapevolezza del carattere storico e dinamico della propria cultura e delle culture altrui.

Ha un ruolo critico e propositivo in tutti campi e in tutte le istituzioni, in una conoscenza/comunicazione di relazioni, atteggiamenti, valori, pratiche, saperi fondamentali nel riconoscimento delle differenze in una convivenza democratica.

Esiste un insieme di valori condivisi e condivisibili da un popolo all’altro, da un paese all’altro, basati su una ragione aperta alle differenze, la coscienza della presenza di una “ambivalenza positiva” che non esclude ma amplia il significato e il confronto contro il ripiegamento nel privato che sembra incombere in tutta la società.

Ricomporre, pur nella diversità di espressione, le divergenze nella ricerca dei valori oggettivi perché questi sono il linguaggio con cui può comprendersi l’intera umanità.

Nasce così la coscienza della coesistenza di elementi diversi ma non contrastanti su cui innestare dinamiche di scambio e accettazione contro ogni omologazione che uniforma e non percepisce la diversità come principio di unità e di uguaglianza.

L’intercultura è un processo educativo, parte dalla famiglia sino a giungere ai più alti gradi dello Stato, che ha il compito di assicurare a tutti gli stessi diritti, al di là di ogni situazione personale (luogo d’origine, genere, capacità, livello economico e d’istruzione, tendenze, scelte esistenziali…), indipendentemente dal tipo d’inserimento e dal posto occupato nella società di cui si fa parte.

Perché questo si realizzi, è indispensabile una visione dinamica delle culture, la ricerca del dialogo e della comunicazione per creare legami di conoscenza reciproca con le persone che condividono il nostro stesso spazio, e, da parte dello Stato, una politica per creare le condizioni di una reale uguaglianza di diritti.

Il percorso interculturale, in un intreccio di relazioni di scambio e comunicazione ugualitaria, di appropriazione e rielaborazione di saperi, codici, modelli, valori dei diversi gruppi, impedisce l’affermazione di superiorità di una cultura sulle altre, indipendentemente da criteri di maggioranza-minoranza.

Non esistono parametri indiscutibili dei valori universali, ma si vuol far credere che vi sia una sola risposta (il ben noto “non ci sono alternative”) agli interrogativi, o meglio, alle sfide aperte dalla storia di oggi in campo etico, morale, sociale, politico, culturale, scientifico, artistico.

La diversità culturale è il riconoscimento di ogni cultura come espressione di un fondamento comune.

Relazioni complesse, certo non sempre facili e scontate, permettono di sviluppare un’interazione tra persone, conoscenze, prassi differenti, con l’obiettivo che ogni “altro” sia considerato un soggetto con una propria identità, con la capacità di pensare, di scegliere, di agire.

Non si tratta semplicemente di riconoscere, scoprire, cogliere l’altro né la differenza in sé: si tratta di promuovere processi di scambio attraverso mediazioni sociali, politiche, di comunicazione, costruire spazi d’incontro e di dialogo tra persone e saperi, pensieri, prassi differenti.

Il riconoscimento dell’altro come soggetto permette di “relativizzare” i propri modelli di vita, sistema di valori, ideologia, teorie e prassi per evitare il pericolo di avvicinarsi ad un’altra cultura attraverso le nostre categorie e vedute.

Nascono così interrogativi su noi stessi, si individuano limiti personali e della cultura a cui aderiamo, di conseguenza ogni “incontro” apporta nuovi elementi senza stravolgere la propria identità.

Uno degli ostacoli per l’accettazione e lo sviluppo di una società interculturale è il peso di una visione del mondo ancora “coloniale”, nel senso che il settore dominante si impone come modello culturale per cui maggioranza e minoranza non rappresentano il “numero”, la “quantità” ma il “potere” esercitato o meglio il gruppo che ha il controllo del potere.

Le comunità o i gruppi minoritari presenti in un paese hanno il diritto, nel rispetto della legge, di rivendicare il riconoscimento delle differenze secondo variabili storiche, etniche, politiche, culturali, rapporto con la natura… il diritto, da una parte, di esercitare la propria identità originaria di comunità e popoli; dall’altra di rifiutare forme d’imposizione della cultura egemonica e la conseguente emarginazione della propria.

È necessario, allora, formare le nuove generazioni, partire dalla base della società instaurando anche nuove politiche in campo educativo con la revisione di contenuti, programmi, formazione dei docenti, occasioni formative nell’ottica di un approccio interculturale.

 

Intercultura e democrazia

È indispensabile comprendere l’intercultura come un asse trasversale a tutta la società in campo politico, sociale, economico, culturale, religioso, educativo; uno strumento per favorire metodi di partecipazione democratica per il raggiungimento di una progressiva equità sociale.

L’approccio interculturale deve entrare anche nell’ambito giuridico perché il potenziale della diversità divenga una risorsa per la crescita e la ricerca creativa di solu-zioni.

Mettere a confronto e sottoporre a dialogo i fondamenti giuridici permette di elaborare principi applicabili in campo di amministrazione pubblica, di rapporti sociali, d’inserimento, di inclusione.

Il dibattito su un processo interculturale deve entrare negli ambiti in cui si elaborano le politiche pubbliche, deve uscire dalla discussione teorica, deve andare al di là di gruppi ed istituzioni coinvolti nella costruzione di società più aperte, nelle quali il contatto tra le diversità non divenga occasione di scontro e di esclusione.

È indispensabile, fin dai più alti livelli, una politica democratica della diversità culturale che concilia “la regola della maggioranza” con i diritti di tutte le minoranze pre-senti.

Lo stesso principio di “maggioranza” delle società democratiche deve esser visto in un’ottica di pluralismo, altrimenti non si potrà mai raggiungere una cultura d’inclusione in ogni ambito dalla politica alla religione, all’economia, alla cultura.

Un tale clima – e non i decreti di (in)sicurezza alla Salvini – assicura la pace e il rispetto perché tratta, forse è meglio dire assorbe, ogni identità come riconoscimento reciproco in un rapporto in cui ciò che ci è simile rassicura, mentre ciò che distingue diviene stimolo per uscire dalla routine e dal timore, alla ricerca di un futuro migliore.

La formazione di una comunità differente, costruita in un tempo diverso, con un nuovo sentire culturale, con tradizioni e simboli “allargati”, condivisi, con principi etici comuni e più ampli, più generali crea una più diffusa partecipazione dove s’intrecciano “pubblica utilità” e “iniziativa personale”  superando stereotipi e divisioni.

Diviene sempre più indispensabile il coinvolgimento delle diverse espressioni della società civile organizzata perché in questo pluralismo, fatto di appartenenze molteplici e trasversali, ci si confronta e rispetta in “concessioni reciproche”   pur mantenendo la propria percezione di appartenenza in una continuità di spazio e tempo.

Il sistema di potere in Italia, e in molti altri paesi, ha creato una situazione di tensione contro “l’altro” che fa leva sulla presunzione di far parte di un gruppo ben definito… e migliore!

Si fa emergere un sentimento di “appartenenza” sino a poco fa ignorato, estraneo alla tradizione e al carattere italiano, con la creazione di un “nemico” interno, che viene da fuori e mette in pericolo la nostra civiltà; un nemico creato ad arte, un elemento che minaccia tradizioni, sicurezza, cultura, religione, sovranità nazionale, prosperità.

Si fanno affiorare e si stringono legami emotivi, istintivi, non razionali per risvegliare “l’orgoglio” di un passato proprio, unico, mentre nulla ha origini “pure” ma è frutto di fattori diversi e divergenti.

In questa percezione è essenziale la creazione di una falsa memoria passata di vittorie e di grandezza, di orgoglio nazionale di fronte agli altri popoli, una “memoria” riscritta e sfruttata dal potere soprattutto in momenti in cui si vogliono nascondere i veri problemi.

Si parla allora della “memoria collettiva” che dà diritto alla difesa delle proprie radici, senza considerare che queste radici attecchiscono a livelli diversi e vanno dall’eredità di un passato lontano sino alle esperienze di oggi.

Il tentativo di riportare alla luce tradizioni ormai superate serve a chi vuol creare false identità da difendere da ogni “attacco esterno”.

Per esaltare al massimo l’autostima nazionale, in difesa di un immaginario collettivo creato ad arte, si agita lo spettro di chi vuol distruggerla con “invasioni” più che di uomini e donne, di idee e visioni del mondo.

Ecco allora i muri alle frontiere, i confini che racchiudono il “sacro” territorio nazionale da difendere dai “barbari” pronti ad occupare ciò che è costato lotta e sangue.

Si dimentica, si vuol far dimenticare, come questi confini significano molte volte (o sempre?) sopraffazione di popolazioni vinte con la forza e alle quali sono state imposte culture e lingue dei nuovi dominatori, dando una “nuova” identità nazionale  che non esiste se non nei testi giuridici, in spesso inutili trattati di pace, in libri di storia di parte e soggetti a vari “racconti” e interpretazioni secondo i tempi e il sistema del potere.

Questa “memoria” ha periodi di alti e bassi, legati a fattori sociali e sociologici in mutazione, se ne fa spesso un uso strumentale agli interessi di qualche gruppo o persona, in una ricostruzione a posteriori del passato per adattarlo alle diverse esigenze del momento .

Diversa è la “memoria storica” che serve (o dovrebbe servire)  come composizione in un disegno unitario delle “memorie collettive”  come tessere di un mosaico che riguarda l’umanità intera.

Dalle “memorie collettive” strumentalizzate nasce, invece, la difesa dell’identità, della civiltà occidentale cristiana minacciata dall’Islam che mette a repentaglio la nostra stessa “essenza” di italiani, dimenticando che non c’è un solo modo possibile dell’identità.

Nessun angolo d’Italia, e probabilmente del mondo, può presentare un’identità omogenea, “pura”, a livello nazionale… la Germania nazista lo tentò inutilmente con il genocidio, e non solo degli ebrei, senza raggiungere la razza ariana pura.

Lo stesso avvenne con la conquista dell’America. L’identità che ne derivò tutto è meno che “omogenea”, esente da contaminazioni che si ritrovano in mille aspetti della vita quotidiana… in Paraguay e in varie zone di Argentina, Brasile, Bolivia, ad esempio, il guaraní, la lingua dei vinti, è lingua franca parlata dai discendenti di quei conquistadores… e la lingua non è certo un aspetto secondario della cultura e del modo di vivere di un popolo.

Non si può poi confondere la democrazia con il “potere della piazza” perché, in tutti i tempi, e soprattutto oggi, niente è tanto manipolato e manipolabile ai propri interessi come l’opinione pubblica.

Spesso di fa “appello alla piazza” per interessi elettorali e di potere e non per difesa di uno Stato di diritto minacciato da forze endogene o esterne che ne snaturano il ruolo e l’espressione. Piazza Venezia ne è in Italia il simbolo emblematico, ma non molto diverse sono le “adunate” attuali convocate dal “palazzo” per dimostrare il consenso che riceve dalla “gente”, come accettazione delle regole imposte e dei decreti che beneficiano ben poche persone, stravolgendo di fatto un percorso democratico.

Si denuncia, si criminalizza invece “la piazza” quando non è funzionale agli interessi del sistema di potere.

Le moltitudini che “scendono in piazza”, spesso autoconvocatesi, per avanzare proposte e richieste, per denunciare abusi e ritardi, per sostenere un progetto di cambiamento, per rivendicare il diritto di tutti ad essere ascoltati, a proporre idee per il bene comune, non hanno il potere di “dettare regole” ma hanno il potere di risvegliare le coscienze contro ogni deriva democratica, per rispondere ai valori democratici condivisi, per rivendicare il diritto “ad essere umani”.

La “piazza” è stata definita come il luogo “senza regole” in contrapposizione allo “spazio” dell’esercizio democratico guidato da leggi e ordinamenti.

“Piazza” e “palazzo” raramente si trovano su norme e valori condivisi; un’espressione se ne ha in democrazie nate veramente dalla base, conquistate e difese dalla stragrande maggioranza della gente… Ne abbiamo vissuto la forza nel Nicaragua della rivoluzione sandinista, ne è stato esempio il Cile dell’Unidad Popular di Salvador Allende… dove la voce della “piazza” trovava eco nelle “stanze del palazzo” e il “palazzo” trovava forza nella presenza e nel sostegno della “piazza”.

Oggi sembra di vivere un contrasto di fondo: le “regole della democrazia”, ignorate o stravolte dal “potere”, sono difese dalla “gente”, non ancora ben organizzata, ancora confusa, ancora non cosciente della sua forza di denuncia delle posizioni ideologiche governative che cercano negli istinti di “folle” irrazionali, inconsapevoli, spesso ignoranti, l’avallo della loro mancanza di democrazia… se con questa parola si intendono i valori di uguaglianza, libertà, nonviolenza, rispetto, dignità.

Indispensabile il modo in cui vengono prese le decisioni per valutare il grado di democrazia di un paese.

La cosiddetta “massa” si lascia facilmente trarre in inganno, non ha la coscienza della libertà che le viene riconosciuta dalla stessa Costituzione; non ha (o si è lasciata strappare) molti degli strumenti che le permettano una reale partecipazione. In una lontana canzone Giorgio Gaber affermava come la “libertà non è star sopra un albero, non è neppure il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero: libertà è partecipazione”.

La “democrazia rappresentativa” ha praticamente perso da tempo le sue caratteristiche, è divenuta una cambiale in bianco nelle mani di chi viene scelto perché rappresenti gli interessi di un paese, quando in realtà naviga a vista, senza alcun progetto se non rispondere a interessi di parte, egoistici ed escludenti: l’esatto opposto di una società democratica.

Senza un’uguaglianza sostanziale e non formale si svuota il significato di democrazia.

Una società interculturale apre ad una ridefinizione il più possibile radicale (che parta dalle radici, appunto) perché “sia organizzata la convivenza sociale”; bisogna ripulire concetto e prassi di democrazia dalle scorie che nascondono il suo reale significato e compito.

La democrazia è basata sull’uguaglianza di diritti, di partecipazione senza discriminazioni ed esclusioni di fatto; uguaglianza per tutti coloro che vivono in una società, ad ogni livello e qualunque sia la loro situazione.

Le decisioni politiche, economiche, amministrative devono essere accettate, ma prima ancora devono essere “accettabili” per tutti coloro che vivono in un paese, senza creare discriminazioni di sorta.

Nessuna legge, nessuna regola si può definire democratica se danneggia o esclude una qualche “minoranza”.

I provvedimenti presi dai rappresentanti della “maggioranza” devono seguire i valori fondamentali di una qualsiasi convivenza, per questo il “decreto Salvini” è quanto di più anti-democratico si possa pensare perché lede diritti e dignità di uomini e donne che vivono in territorio italiano e non hanno in esso la minima accoglienza.

Non si può parlare di democrazia senza la garanzia di libertà per tutti, se esistono cioè vincoli tali da non permettere la volontà o la possibilità di scegliere.

Sono oggi sotto gli occhi di tutti questi condizionamenti che vanno da una disinformazione diffusa, a un linguaggio violento, a un mondo del lavoro stravolto tra pessime condizioni, precarietà, insicurezza, salari insufficienti per una vita dignitosa, ad una scuola sempre più svuotata di contenuti educativi e formativi, a tagli insensati alla cultura nei suoi vari aspetti…

Non sono democratiche quelle società che hanno sistemi elettorali che non garantiscono l’uguaglianza del valore di ogni voto e schieramento politico (chi ha il 17% dei voti non dovrebbe avere un potere assoluto!!!) altrimenti non si può dire che un governo, un parlamento è rappresentativo della nazione.

Così il potere legislativo perde sempre più peso a vantaggio di un esecutivo che tra decreti, voti di fiducia, escamotages di ogni tipo svuota l’espressione della “volontà popolare”.

Norberto Bobbio scrisse: «La democrazia è un insieme di procedure per prendere decisioni collettive», il suo valore, quindi, dipende dalla loro validità, legittimità, trasparenza.

«Le calunnie, l’odio, la creazione del nemico sono processi inquietanti e pericolosi quando intervengono in essi gli apparati di potere. In una vera democrazia non si contano i nemici, si contano i voti. E in democrazia un problema ha sempre una soluzione: maggior democrazia» .

padre trasferimentoRenato Piccini

Paola Ginesi

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