Giorgio Di Vita: Una testimonianza su Peppino Impastato

Giorgio

 

  1. guido e giorgio 2010Tano Seduto

 

È un pomeriggio di quell’estate di trent’anni fa, sono seduto al bar con il nome meno fantasioso che si possa immaginare: Bar Sport. Per pudore lo chiamo da sempre “bar di sopra”, trovandosi nella parte più alta della piazza, che è in discesa come lo sono tutte le vie del paese degradanti verso il mare. Quei tavolini e la panchina più vicina al bar sono il pun

to in cui ci incontriamo. Forse perché la via Palermo, la strada che si percorre se si entra in paese venendo da Cinisi, termina proprio lì confluendo nella piazza…. Non so se andare subito a Radio Aut. A quest’ora del primo pomeriggio i microfoni sono liberi e io di solito metto su un po’ di musica classica con qualche commento, la mia fumata solitaria. Peppino spunta dalla via Palermo e dissolve ogni dubbio. Camicia militare e Scholl’s, la camminata sciolta e sicura, ma senza ostentazione. Si siede con me e ci dividiamo una birra, Poi lui mi dice: “Andiamo alla radio”. Ha un modo di fare deciso e discreto allo stesso tempo. Sa bene il fatto suo e questo gli dà tanto carisma da indurlo a un obbligo di umiltà nei confronti di chi gli sta vicino. È un leader, suo malgrado, si direbbe. Cammina con le mani in tasca, trascinando gli zoccoli ed è l’unico atteggiamento da toco che si concede, ma è un modo per uniformarsi agli altri, non per distinguersi. Mi sono chiesto tante volte come Peppino vivesse la sua appartenenza a una famiglia mafiosa con i compagni o, semplicemente, con gli altri

ragazzi. lo che vivevo così male la mia appartenenza siciliana con gli amici di Roma, fino a negare la stessa esistenza della mafia con chi mi dava del mafioso per il solo fatto di essere di origini siciliane. Chissà se Peppino non la vivesse come una stimmata, al punto da sentire invidia e frustrazione nei confronti degli altri. Alla radio siamo soli, così ci sediamo vicini davanti alla consolle e cominciamo a scalpitare alzando nuvole di polvere rossa. Oggi le rivedo con la memoria, inevitabilmente sfocate, incomplete.

– Tano Seduto è là fuori, forse dietro una macchia di cactus! Macchia, macchia ho detto. Perché che avevi capito?

– Ma che ci fa Tano seduto dietro i cactus? Ha forse bisogno di starsene appartato?

– Bisogno? E qual è il suo bisogno?

– Attento al sederino, caro Tano seduto dietro al cac-tus. Non lo sai che ci sono spine dappertutto?

– Certe spine lunghe una spanna.

– Ma non sarà forse che Tano Seduto preferisce non abbandonare il suo sedile?

– E sì, e sì, quello che stai pensando è un altro posto buono dove andare al momento del bisogno. Un colpo di chiave e ti senti padrone del mondo.

– E già, e già …

Peppino un po’ guida il gioco, un po’ si fa guidare e portare dalle parole; assonanze, allusioni. E intanto scocca le sue frecce ben indirizzate verso bersagli che lui conosce bene, che vede con chiarezza. È la sua battaglia contro il grande capo che ha la pelle rossa solo perché è tinto mentre, in realtà, Tano e i suoi sono solo visi pallidi. Peppino, invece, forse vede noi stessi come quegli indiani che hanno trovato un paio di fucili mezzo arrugginiti e sparano all’impazzata contro le Giacche Blu, col rischio di farsi male come bambini con in mani) una manciata di mortaretti.  Ma il gioco vale la candela. Quei colpi di fucile magari a don Tano Seduto gli disturbano la quiete e lo spostamento d’aria gli fa volare via le penne dalla testa, come in certi western all’italiana, dove alla fine la carogna muore implorando pietà.

 

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  1. Partenza

 

Una volta alla stazione di Cinisi sono già lontano da tutto questo e aspetto rassegnato che la campanella cominci a tintinnare dalla parte giusta, quella da cui arriverà l’automotrice da Trapani, la littorina OM col muso impressionante di un lucertolone giurassico coi denti digrignati. Poi, a Palermo, il lungo direttissimo per Roma. Attendo, con la valigia tra i piedi, ma non mi aspetto di vedere spuntare un amico che mi viene a salutare.

– Ehi, Giorgio!

Mi volto, è Peppino, con la sigaretta incollata tra le dita.

-Peppino!

Mi stringe forte la mano. Poi lui fa un passo indietro com’è nel suo stile, tanto riservato con gli amici quanto sfrontato e impertinente con le persone che non ama.

Gli avevo annunciato la mia partenza già il giorno prima, ma non mi aspettavo che si ricordasse l’orario del treno.

– Perciò parti?

– Sì, però ci rivediamo a Bologna, al convegno di settembre. Vieni, no?

– Penso di sì, ora vediamo come organizzare la cosa, ma vorrei esserci,

– Be’, tanto continuiamo a tenerci in contatto. A Roma saranno giorni di preparativi e mi piacerebbe farvi da corrispondente.

– Sarebbe buono. Perché no? Frequenti l’università, no?

– Sì, praticamente immerso nelle cose che stanno accadendo. Il giorno della contestazione di Lama io c’ero, e c’ero pure durante l’occupazione, e a Bologna non voglio assolutamente mancare.

– Tu, quando c’è qualche novità, piglia il telefono e chiamaci che ti mandiamo in onda in diretta.

La campanella comincia a suonare, fra poco spunterà l’automotrice fumante. Ancora qualche scambio di battute, poi il treno sbuca dalla curva oltre il passaggio a livello. Ci stringiamo la mano. Poi Peppino mi tira leggermente a sé avvicinando la sua guancia alla mia.

– Salutiamoci con un bacio. Fai buon viaggio Giorgio.

– Ciao, a presto.

Prendo posto sul lato destro della vettura per potere salutare ancora Peppino. La littorina fa ruggire il suo motore diesel e le ruote cominciano a sferragliare sui binari; riesco a vederlo ancora qualche secondo mentre si volta per andarsene, poi la stazione esce dal mio campo visivo e la campagna e le case cominciano a scorrere sempre più veloci oltre il finestrino. Sullo sfondo il grande cane di roccia si muove, quasi impercettibilmente, ma si muove.  Fra poco il treno, continuando a ruggire e sferragliare, avrà colmato la distanza che divide la stazione di Cinisi da quella di Carini, ma non posso immaginare neppure lontanamente che sarà l’ultima volta che percorrerò quei pochi chilometri di ferrovia senza pensare a ciò che da lì a pochi mesi sarebbe accaduto, proprio su quel maledettissimo tratto di binari.

 

 

  1. Bologna

 

Quel primo giorno a Bologna è una giornata in cui il sole ha mitigato la temperatura, mentre migliaia di ragazzi arrivavano con treni, pullman automobili. Bologna è presidiata da migliaia di poliziotti per contenere l’orda dei 7.000 “nuovi fascisti” (è ancora Berlinguer a parlare) convenuti da tutta Italia e oltre. lo ho scelto il treno, parto da solo, ma già alla sta- zione Termini ritrovo i compagni dell ‘università. Il viaggio è tutt’altro che noioso; mi unisco ai compagni che passano facendo casino lungo il corridoio. Si va verso la carrozza self service, dove gli indiani attuano l’esproprio proletario di merendine, panini imbalsamati nel cellophane e succhi di frutta dai prezzi notoriamente improponibili a studenti squattrinati. Sciamando con gli altri attraverso le carrozze,

a un certo punto mi cade l’occhio su un passeggero solitario in uno degli aristocratici e silenziosi scompartimenti di prima classe. È lui, uno dei leader del movimento, il compagno dall’aspetto “fico”! Lega perfettamente con la tappezzeria rosso bordeaux; no, non sembra un clandestino, ed è cosi compreso nel suo ruolo di passeggero di prima che neanche alza lo sguardo dalle sue carte, probabilmente un intervento per la giornata faticosa che l’aspetta. Ma forse invece anche il suo è un esproprio proletario, anzi, è senz’altro così, c’è chi sogna di riempirsi la pancia di Ritz e chi di far viaggiare il suo sedere sul velluto.

Una volta arrivati veniamo indirizzati verso la zona universitaria. È la mia prima volta a Bologna e mi conviene unirmi al gruppo. L’autobus è gratuito, sarà ancora esproprio proletario o un regalo del sindaco Zangheri? Non ci sono ancora i telefonini, così mi fermo a una cabina e chiamo Radio Aut per concordare un appuntamento con Peppino che, a sua volta, si tiene in costante contatto con i compagni di Terrasini. Un elicottero dei carabinieri riempie il cielo del suo flat flat flat.

A piazza Verdi ci viene indicato dove cercare un posto per la notte. Entriamo in un portone fin dentro un lungo corridoio nel quale sono già allineate decine e decine di sacchi a pelo. Avanzo fino all’ultimo della fila e srotolo il mio, ponendo lo zaino dalla parte della testa; mi farà da cuscino. Poi tomo verso la piazza ed è lì che incontro Peppino. Ci informiamo sugli appuntamenti e ci accordiamo sulle iniziative da seguire. La più importante è programmata nella Sala dei Seicento a piazza Maggiore: è la presentazione del “Libro bianco sulla repressione” curato da Lotta Continua.

Ma non ci sono solo le riunioni ufficiali; in piazza Maggiore i capannelli tra i giovani e i bolognesi raggiungono le dimensioni ragguardevoli di cento, duecento partecipanti; nelle aule universitarie si tengono assemblee improvvisate, quella dei compagni stranieri, degli anarchici, degli iscritti a Medicina, degli attori dei gruppi teatrali che, con i loro spettacoli ambulanti, fanno da anello di congiunzione tra i manifestanti e i cittadini dei quartieri più periferici. Punto di informazione e di smistamento il tendone allestito a piazza Verdi, con la sua bacheca strapiena di avvisi.

L’Autonomia si riunisce al Palasport dove, alI’ingresso, c’è qualche difficoltà tra gli autonomi romani di via dei Volsci e i militanti del Movimento dei Lavoratori per il Socialismo che, però, alla fine vengono ammessi all’interno…. Alla cabina telefonica ci pigiamo, alternandoci, per comunicare con Terrasini alla fine di quella prima giornata in cui si è parlato di repressione, tenerezza,

comunicazione di massa, di un linguaggio che parli ai sentimenti e non solo alla ragione, di violenza, eroina, autonomia del movimento e centri sociali. A un certo punto il passaparola porta fino ai nostri orecchi la notizia che hanno sparato a un compagno e che, forse, è morto. La diamo subito, in diretta, ma con il condizionale e facciamo bene perché sarà presto smentita. La tensione è alta e basta lo scoppio della marmitta di un motorino perché si diffonda la notizia dell’esplosione di una bomba. Ognuno di noi, al telefono, racconta in poche parole ciò che ha visto e ha fatto, poi chiudiamo la diretta, o almeno così crediamo. In realtà vanno in onda anche le raccomandazioni ai compagni di Radio Aut perché tranquillizzino mamma e papà che qui è tutto a posto e che non si preoccupino. La notte successiva la bomba esploderà sul serio, nel quartiere di San Donato, dentro un contenitore di rifiuti, mentre quella stessa notte qualcuno, una voce pirata, si inserisce sulle frequenze della polizia spacciandosi per un capitano dell’ Arma: annuncia l’assalto della sua colonna da parte di autonomi armati e la morte di due carabinieri.

Del giorno dopo ho ricordi frammentari, c’è stata qualche contestazione all’indirizzo dei filosofi francesi e cominciamo a sentire la stanchezza, quella fisica. Ho in mente l’immagine di me seduto con Peppino e gli altri su un gradino davanti a un portone; un fotografo si ferma davanti a noi e scatta. Siamo un bel gruppetto; spero ancora oggi di imbattermi in quella foto, casomai un giorno o l’altro venisse fuori dalle pagine di un libro.

La sera siamo tutti a piazza Maggiore, che non riesce a contenerci. Qualcuno ha portato un tubo di plastica fluorescente che comincia a volare da una parte all’ altra, e chi di volta in volta riesce ad afferrarlo lo rilancia immediatamente in una sequenza interminabile. Il gioco dura tutta sera, fino a tardi. La mattina dopo avrei voglia di indugiare nel sacco a pelo, ma il viavai e la confusione crescono e, alla fine, sono in piedi con lo zaino sulle spalle che non sono ancora le otto.

Al Palazzo dello Sport c’è lo spettacolo di Dario Fo. Decido di non andare, il pomeriggio ci sarà la grande manifestazione finale e l’ora di formare il corteo arriva in un attimo.

Ho già salutato Peppino, ci siamo dati appuntamento per la prossima estate. Siamo i padroni del tempo, o almeno questo è ciò che crediamo. L’estate prossima sarà come quella che è appena trascorsa. La morte non esiste, o almeno non esiste per noi, ora. E questa certezza vale anche per domani e per dopodomani e per il prossimo anno e per quelli che verranno.

C’è aria di festa. Un lungo serpente di stoffa verde vola sulla folla verso la testa del corteo. Ci sono già dentro; cominciamo a muoverei, ma si sparge la notizia che mentre noi iniziamo solo ora a camminare la testa del corteo è già arrivata. Siamo settantamila, non so come e chi ci abbia contati, ma per me potremmo essere un milione, l’impressione è che a Bologna non ci siamo che noi. Gli autonomi sfilano dietro lo striscione “Paolo e Daddo liberi”, i compagni arrestati per l’inchiesta del giudice Catalanotti. Raggiungo l’ala creativa. Stare con gli indiani è divertente e tra gli slogan che si trasmettono da un punto all’altro del corteo risuona il “Ce n’est qu’un debut, continuons le combat” dei compagni del maggio francese. Noi ne infiliamo una raffica di assolutamente demenziali.

Giorgio Di Vita

I tre brani fanno parte del libro  di Giorgio Di Vita “Non con un lamento” ed. Navarra 2010

Nella foto: Giorgio Di Vita e Guido Orlando

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