UCCISO E CASTRATO (Vincenzo Vitale)

IMG_20210821_0001

Pubblico un capitolo del libro di Vincenzo Vitale “Versi, canzoni, storie, memorie”, che descrive in modo nudo e crudo il mopdo d’agire della mafia negli anni 40, (e non solo), le violenze sulle donne, l’arroganza del sentirsi “uomo d’onore” , la capacità di sapere reagire, sia da parte di chi subiva il torto, sia da parte di chi ne era autore, la vendetta, la scarsa credenza nella giustizia divina  e la convinzione che, in una società in cui ci sono molte vittime e pochi carnefici, solo chi è in grado di farsi giustizia da solo merita rispetto. Il libro è edito da Billeci – Borgetto e si può acquistare su Amazon (S.V.) 

img057Foto libroIMG_20210821_0001

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Siamo intorno agli anni venti dopo l’immane catastrofe della grande guerra che aveva lasciato una serie di tristi conseguenze, lutti, rovine, disoccupazione, abbandono delle campagne, tensioni politiche, svalutazione della moneta, difficoltà per milioni di ex combattenti nel trovare un reinserimento nella vita civile.

Dalla disoccupazione alla corruzione e in molti casi alla delinquenza, il passo è breve. I fatti di cui ci occuperemo circoscrivono questa situazione ad alcune zone della provincia di Palermo, dove il fenomeno della mafia era in netta fase di espansione, prima che l’azione del prefetto Mori cercasse di stroncarla.

 

In una fredda sera d’inverno, in un circolo ricreativo del paese, si giocava a carte e si conversava tra amici. Fra questi, vi era un giovane di statura robusta. Nel paese era considerato un uomo di vita. Domenico apparteneva ad una famiglia di medio ceto. Si dice anche che appartenesse a una cosca mafiosa. Verso le ore ventuno, si presentò nel circolo un uomo conosciuto in paese, il quale, con un cenno della mano chiamò Domenico. Questi si alzò subito lasciando il tavolo da gioco, raggiunse il nuovo venuto ed insieme uscirono. Appena fuori, l’uomo disse a Domenico:

“Mimiddu, due amici ti vogliono parlare”.

“Dove sono?” ,rispose Domenico alquanto turbato,

“Qui in piazza. Sono amici, non ti preoccupare”.

“Io preoccuparmi? Di che cosa? Forse non mi conosci ancora? Chi sono questi amici, che cosa vogliono a quest’ora?”

“Ma non so, mi dissero che hanno bisogno di parlarti. Sai, sono di Montelepre, anzi, mi ricordo perfettamente chi sono. Ti ricordi quando eravamo al campo Cippi con la mandria insieme a Gaglio e Candela, mentre stavamo tosando le pecore, che sono venuti due giovani ad aiutarci e che mangiarono con noi? “

“Sì, sì, mi ricordo anch’io, sono due picciotti di fegato; bè, sentiamo cosa possono volere”.

Così dicendo, si avviarono insieme verso la piazza. Ma, subito dopo, Domenico si fermò e disse alcune parole all’orecchio del suo amico. Poi, distaccatosi da lui, si diresse verso il luogo indicato per incontrarsi con i due individui che lo attendevano. Mentre Domenico si avviava con passo fermo, il suo amico rimase indietro e poi dirottando da una traversa, scomparve nel buio senza fare alcun rumore. Camminando rasente il muro delle case, Domenico vide sbucare dal vano di una porta, un’ombra che gli si parò davanti chiamandolo per nome: “Mimiddu, sei tu?”.

“Sì, sono io, e tu chi sei?”, rispose Domenico senza scomporsi.

“Sono un amico, Piddu Sciara. Scusami se sono venuto a disturbarti, ho bisogno del tuo intervento e credo potrò contare sulla tua amicizia”. Così dicendo, si pose a fianco di Domenico e continuarono a camminare verso le ultime case del paese dove ci si immetteva in una trazzera che portava nelle campagne.

Quando stavano per passare l’ultima casa prima di entrare nella trazzera, un altro uomo uscì dall’ombra del muro e si avvicinò ai due cautamente, dopo avere scambiato un segnale convenuto con quello che accompagnava Domenico.

Quando entrarono nella trazzera, il primo incontrato mise sotto braccio Domenico mentre l’altro, dopo avere salutato a bassa voce, si affiancò anch’egli e continuarono ad avanzare per l’angusta via, fiancheggiata di alte mura con alte piante di fichidindia ed altri alberi. A circa trecento metri dalle ultime case, c’è una mulattiera che accede nelle proprietà private dal lato della montagna. All’imboccatura di questa mulattiera che fa angolo con quella principale, vi è una piccola cappella con l’immagine della Madonna del Rosario. Qui, i tre si fermarono proprio davanti alla cappella e, guardandosi intorno, Domenico disse:

“ Qui possiamo parlare liberamente”.

“Sono venuto a parlarti di una cosa molto delicata e nello stesso tempo, a farti una proposta che spero accetterai -, disse Piddu Sciara con tono di voce pacata ma abbastanza ferma-, del resto è nel tuo interesse. Capirai che non sono venuto fino qui per un capriccio. Sono venuto a nome della nostra “seggia” (così chiamavano il consiglio della mafia di quel tempo). Quindi, dipende da te l’esito del mio viaggio. Spero di avere a che fare con un uomo d’onore”.

“Ma se non mi dici di che cosa si tratta, non so cosa rispondere”

“Ecco, mi spiego subito; qualche volta si fanno dei capricci e si commettono delle fesserie senza tenere conto delle conseguenze che vengono dopo. Mi devi scusare, ma questa volta sei stato tu a commettere una leggerezza e quindi devi riparare. Tu devi recuperare l’onore insieme al tuo amico Ippolito, di quelle due ragazze che avete sedotte con la forza alla presenza della madre, che avete legata e chiusa in uno stanzino. Spero avrai capito di chi sto parlando”.

“Non ti capisco proprio di quali ragazze stai parlando, e poi, perché ti rivolgi proprio a me?”.

“ Sai benissimo di chi sto parlando e, si tratta proprio di Rosa e Maria Tinervia, le figlie di Turi Tinervia, quello che morì dentro il carcere. Ora, anche se il padre è morto e le ragazze non hanno uomini in casa e, per di più, sono povere, tu pensi che non si deve portare loro rispetto? La nostra “seggia” rispetta anche i morti che sono stati nostri amici e quindi, nella riunione, il capo ha deliberato che per riparare al fatto, tu e il tuo compagno dovete sposare le due sorelle orfane da voi sedotte e disonorate, Ho detto quello che dovevo dire”.

“Di quali ragazze stai parlando? Io non ti comprendo e non so nulla di quanto hai detto. Ora basta”.

“Mi dispiace dirti che se tu non accetti le mie condizioni, sono costretto ricorrere alla legge degli uomini. Tu sai benissimo che le macchie dell’onore si lavano col sangue e con la vita. Ed ora, deciditi a darmi una risposta, non ho tempo da perdere”.

Queste ultime parole furono pronunciate con voce ferma ed autoritaria e, nello stesso tempo, con tono di minaccia dall’uomo che si faceva chiamare Sciara, mentre, con mossa studiata, egli si distaccava di circa un paio di metri da Domenico. L’altro individuo rimasto in silenzio a circa quattro passi di distanza, ascoltava e sembrava aspettasse ordini dal suo compagno.

Dalle ultime parole dette dallo Sciara, Domenico capì che si trovava a mal partito, ma l’orgoglio di sentirsi uomo di fegato, superò la ragione e non volendo fare la figura del vigliacco, ribattè:

“Prima di tutto ti ripeto che non so di chi stai parlando e che cosa io debba riparare; poi ti dico che non temo le tue parole e le tue minacce. Anzi, ti dico: se sei venuto per conto della tua “seggia”, meglio che te ne ritorni da dove sei venuto e vai a dire al tuo capo che venga lui se ha da dire; anzi, sarebbe meglio che non venisse più a disturbare per simili sciocchezze”.

“Sono queste le tue ultime parole?”, disse Sciara freddamente, portandosi le mani alla testa fingendo di aggiustarsi il berretto.

“ Non ho altro da dire, ti saluto”.

Dicendo così, Domenico si stava allontanando in fretta tentando di raggiungere un piccolo passaggio che dava adito in un giardino. Non aveva fatto più di cinque passi quando si udirono due secche detonazioni; contemporaneamente, Domenico si piegava sulla schiena accasciandosi al suolo. Appena Domenico cadde a terra, lo Sciara tirò dalla tasca un oggetto e si abbassò sul corpo del colpito, operando qualcosa. Nel frattempo, l’altro compagno che ad un segnale convenuto con lo Sciara aveva scaricato i due colpi di fucile a canne mozze alle spalle di Domenico, ricaricava l’arma tenendosi accostato al muro della cappella.

Finito il lavoro, i due si consultarono sulla via da prendere, poi, percorrendo la trazzera, si diressero verso la montagna e camminando a passo normale, come se venissero da una partita di caccia. Dal loro comportamento e da come avevano eseguito il delitto, ci si può fare un’idea dei tipi scelti per compiere tali operazioni criminose.

Per concludere quello che successe, è necessario riportarci un po’ indietro quando Domenico, uscito dal circolo col suo amico, aveva avuto il presentimento che qualche cosa di grave lo attendesse. Fu per questo che appena fuori gli parlò all’orecchio, mettendolo in guardia e facendolo allontanare da lui. Infatti, appena si divisero, l’uomo scivolò silenziosamente rasentando le mura delle case fino a raggiungere una stretta viuzza che portava alla periferia delle ultime case del paese e sboccava in aperta campagna a circa duecento metri dalla trazzera in cui era stato commesso il delitto.

L’uomo, accelerando il passo, attraversando un giardino di agrumi con la massima cautela, senza fare alcun rumore, si nascose dietro il muro di cinta del giardino che confinava con la trazzera dove Domenico con i due individui si erano diretti per discutere. L’uomo nascosto sembrava fosse a conoscenza del punto dove si dovevano andare a fermare i tre per ragionare: infatti, si era fermato sotto il muro di fronte alla piccola cappella della Madonna del Rosario. Era appena arrivato sul posto e stava arrampicandosi sul muro per guardare nella trazzera quando, nel tetro silenzio di quella sera, sentì distintamente un rumore di passi nella via proveniente dal lato del paese. Il rumore si faceva sempre più vicino allorché si udì la voce di Domenico e poi quella dello Sciara. L’uomo nascosto, rimase aggrappato al muro senza muoversi, per paura che potesse provocare un rumore e tradire la sua presenza. La posizione era incomoda, comunque, se non vedeva, poteva ascoltare tutto quello che si diceva dietro al muro.

Quando udì le parole di minaccia pronunciate dallo Sciara, avrebbe voluto intervenire in favore di Domenico, ma, non avendo nessuna arma, non poteva affrontare la situazione; così, credette opportuno starsene fermo in ascolto.

Qualche minuto dopo, udì i due colpi di fucile seguiti da un rantolo stridente di dolore accompagnato da un tonfo pesante. Domenico, colpito con due fucilate a lupara alla schiena a non più di cinque passi, stramazzò pesantemente al suolo esalando l’ultimo respiro. L’amico comprese di che si trattava e, preso dall’emozione, rimase ancora aggrappato al muro trattenendo il respiro per la paura.

Quando sentì i passi dei due che si allontanavano, sporse la testa dal muro guardando nella trazzera. In quell’istante, la luna mandava un raggio di luce da uno squarcio in mezzo alle nuvole che coprivano il cielo in quella triste notte d’inverno. Il chiarore della luna permise all’individuo di potere vedere i due assassini che si allontanavano lasciando alle loro spalle la scena tragica che abbiamo descritto. L’uomo aggrappato al muro, visto che i due erano scomparsi nella notte, si sporse e vide il cadavere di Mimiddu disteso riverso sulla trazzera a pochi passi da lui. Mentre lo stava guardando, la luna scomparve dietro una grossa nuvola e un fitto buio cadde sulla lugubre scena. L’uomo rimase atterrito, si sentì rizzare i capelli e, come affascinato da una forza magnetica, rimase a guardare senza potersi muovere.

Nella piccola cappella della Madonna del Rosario, davanti alla quale si era svolto il fatto, una piccola lucerna ad olio posta davanti all’immagine, mandava ancora una debole luce rossastra e, proprio in quel momento, si stava spegnendo lasciando il moccolo fumante che bruciacchiava ancora senza più fiamma. Così, in quell’istante, si spegnevano la fiamma di una lucerna e la vita di un uomo, un uomo che mai aveva pensato di essere anche lui un misero mortale.

L’uomo che aveva assistito alla tragedia, era ancora stupito ed in preda ad una forte emozione che gli impediva di prendere una decisione. Come per venirgli incontro a scuoterlo da quello stato ipnotico, l’abbaiare di un cane a circa trecento metri in direzione da dove si erano allontanati i due assassini, gli fece balenare un’idea. Scese subito e ritornò indietro per la stessa via che aveva percorso pochi minuti prima. Rientrò in paese attraversando la piazza, imboccò una via dall’altro lato della piazza e si inoltrò in un vicolo oscuro. Andò a bussare alla porta dove abitava il padre di Domenico.

La porta venne aperta e comparve un uomo alto di statura, robusto e di aspetto piuttosto imponente. Vedendo il giovane sconvolto ed ansante per la corsa che aveva fatto, restò un po’ incerto se farlo entrare o no. Ma il giovane si fece avanti e chiuse la porta. Il vecchio capì che qualche cosa di grave doveva essere accaduto e gli domandò:

“Cosa ti è successo? Vito, parla”.

“Niente don Pietro, cercavo vostro figlio Peppe, dove posso trovarlo?”. “Non so”, – rispose il vecchio -,  credo sarà andato al circolo in cerca di suo fratello Domenico. È uscito da pochi minuti. Ma dimmi, c’è cosa? Parla, ti prego”.

Vito, senza neanche rispondere alla domanda del vecchio, girò su se stesso, aprì la porta ed uscì allontanandosi quasi di corsa e dirigendosi verso la piazza. Andò al circolo direttamente e quando vi fu dentro guardò in giro, ma Peppe non c’era.

Mentre stava domandando al cameriere del circolo se lo avesse visto, Peppe spuntò sulla porta e, visto Vito, gli si fece incontro salutandolo. Quando gli si avvicinò, rimase sorpreso nel vedere il suo aspetto tanto stravolto. Quello a sua volta, avendolo visto, anch’egli si avvicinò e senza rispondere al saluto, lo prese sotto braccio, lo portò fuori dal circolo e parlandogli all’orecchio in modo concitato gli disse:

“Peppe, conosco il tuo coraggio e la tua calma, spero avrai la forza di agire subito, vieni con me”.

“Ma di che si tratta, parla”, disse Peppe già allarmato dal contegno di Vito e, afferratolo per un braccio e scuotendolo, gli disse ancora:

“Mi hanno detto che poco fa sei venuto qui a chiamare mio fratello Mimiddu e vi siete allontanati verso la punta del paese. Poco dopo che siete usciti si sono udite due fucilate proprio in quella direzione. Ora tu sei qui; cosa è accaduto? Dov’è mio fratello?”

“Calmati Peppe, proprio per questo sono venuto a cercarti prima a casa e ora qui. Stasera sono venuti da Montelepre Piddu Sciara e suo cugino per parlare con tuo fratello. M’incontrarono qui in piazza e mi pregarono di andarlo a chiamare perché avevano bisogno di parlargli. Io, conoscendoli per amici, ho creduto giusto andarlo a chiamare. Quando ho detto a tuo fratello chi erano, si è turbato un po’. Poi, senza esitare un istante, s’incamminò verso il luogo dove io gli dissi che lo attendevano. Io volevo accompagnarlo ma lui mi obbligò a tenermi lontano e mi suggerì di prendere dal vicolo, entrare nel giardino e andarmi a nascondere dietro il muro della trazzera di fronte la cappella, per ascoltare. Prima che ci separassimo mi disse ancora:

“Se tu capisci che c’è qualche cosa che non va, vai a chiamare subito mio fratello Peppe”.

Io ho avuto il tempo di aggrapparmi al muro quando loro sono arrivati. Il discorso non fu lungo, ho udito appena quale fu la ragione per cui tuo fratello è stato…”

“Dunque mio fratello è stato accoppato e tu, canaglia, non sei intervenuto in suo aiuto? – disse Peppe tra i denti.

“Ti giuro, Peppe, io li credevo amici. E poi non avevo armi per potere affrontare la situazione. Maledizione, se fossi stato armato, dal posto dove mi trovavo potevo freddarli entrambi. Ho visto dove si sono diretti: se vuoi, agiamo subito, andandoci ad appostare al passaggio da dove sono sicuro che passeranno. Ma, scusami, e tuo fratello? Bisogna avvertire qualcuno per andarlo a custodire”

“Sì, hai ragione, mio fratello non può restare in balìa dei cani. Andiamo subito a casa mia, parlerò con mio padre e poi decidiamo cosa dobbiamo fare”.

In meno di cinque minuti arrivarono a casa e Peppe bussò alla porta in un modo convenzionale, ma il vecchio don Pietro, come se presentisse la triste notizia, proprio in quell’istante stava indossando un cappotto deciso ad uscire per andare a cercare i suoi figlioli. Appena sentì bussare, aprì la porta e si trovò di fronte suo figlio Peppe e l’amico Vito. Guardandoli in faccia, capì subito che qualche cosa di grave doveva essere accaduta.

“Entrate” ,disse il vecchio e richiuse la porta alle loro spalle. Poi, guardando il figlio e vedendolo pallido in faccia e con gli occhi rossi, ebbe il sospetto che fosse accaduto qualcosa all’altro figlio. Lo prese per un braccio e stava per domandarglielo, ma questi, prima che il padre parlasse, gli si avvicinò poggiandogli le mani sulle spalle e gli disse a bassa voce, quasi balbettando, con un nodo di pianto alla gola:

“Padre, hanno ammazzato mio fratello Mimiddu. So chi sono gli assassini e dove si sono diretti. Che devo fare?”.

Il vecchio, sentita la notizia, ebbe un attimo di smarrimento, ma subito, ripreso il suo abituale sangue freddo e con gesto feroce pieno di odio nello stesso tempo, disse:

“E me lo domandi cosa devi fare? Non sai questi debiti come si pagano? La macchia di sangue si lava col sangue. Dov’è caduto tuo fratello? Penso io a farlo guardare fino all’alba”.

“Nella trazzera dell’abbeveratoio, davanti alla cappelluzza”, rispose Peppe come se parlasse a se stesso. Poi, senza dire altro, entrò in una stanza accanto e subito dopo ne uscì con due fucili a retrocarica calibro 12 e due ventriere piene di cartucce a pallettoni o, per meglio dire, caricate a lupara. Uno dei due fucili e una cartucciera lo diede a Vito e l’altro se lo mise a tracolla. Poi si avvicinò di nuovo a suo padre e abbracciandolo gli disse con voce ferma:

“Padre, pensaci tu a dirlo alla mamma, ma non dire dove sto andando io. Non preoccuparti se non torneremo presto”.

Il vecchio, abbracciò il figlio e strinse la mano a Vito. Poi, con voce ferma e piena di emozione nello stesso tempo, guardando in faccia i due giovani disse:

“Andate figlioli, e che Dio vi assista. Io sono vecchio e non posso fare quello che il cuore e il dolore mi suggeriscono. Fate voi quello che dovrei fare io. Andate, figlioli”.

La mattina successiva, verso l’alba, alcuni contadini lasciavano il paese recandosi a lavorare nei campi. Quasi faceva ancora buio quando due di questi, oltrepassate le ultime case, si incontrarono nella trazzera dove era avvenuto il fattaccio. Camminavano spensierati affiancati l’uno all’altro, parlando più o meno delle coltivazioni nei campi. Ad un tratto, a pochi passi da loro, videro di traverso nella trazzera la figura di un uomo. Dato i tempi che correvano, compresero subito che si trattava di un omicidio. Uno dei due voleva ritornarsene indietro, ma l’altro, forse più coraggioso, insistette per passare. Decisero di passare e, quando furono all’altezza del cadavere, la curiosità li spinse ad abbassarsi per conoscere chi fosse. Uno di loro accese un fiammifero portando la fiamma vicino al volto del morto: con orrore notarono che al collo del disgraziato stavano legati con un filo di spago i testicoli col relativo membro ed un biglietto con la seguente scritta:

“La castrazione è riuscita bene, non violenterà più nessuno”.

Difatti il cadavere presentava la recisione completa dei testicoli e, nella parte, una pozza di sangue già coagulato. I due contadini si guardarono in faccia e poi, girando lo sguardo attorno, uno di loro disse con voce emozionata:

“Mizzichedda!… proprio davanti alla Madonna!”.

I due si distaccarono dal cadavere e stavano discutendo se tornarsene a casa o andare alla caserma dei carabinieri per comunicare quanto avevano visto, oppure andare a casa di don Pietro ad avvisarlo di quello che era capitato al figlio, perché avevano riconosciuto il morto. Nella stessa via, dalla parte opposta del paese, spuntava un pastore a cavallo di una mula carica di formaggi e ricotta, proveniente dalla montagna dove aveva una mandria di pecore. Il pastore stava portando il frutto pastorizio in paese. Appena visti quei due contadini e davanti a loro disteso a terra un uomo, si avvicinò con aria spaventata e tutto sconvolto disse:

“Ma stamattina cosa succede? Due ce ne sono in mezzo alla trazzera a passo di Schinardi, qui ce n’è un altro. Caspita, c’è da spaventarsi a camminare di questi tempi. L’avete riconosciuto chi è questo qui?”.

Prima che il pastore avesse terminato la domanda, uno dei due contadini gli si avvicinò e a sua volta gli domandò:

”Avete detto che ce ne sono altri due morti?”

“Sì, ci sono altri due cadaveri in mezzo alla via proprio al bivio tra la portella e la via che scende verso mare”.

“Li avete riconosciuti chi sono quelli?”

“No, ci sono passato al largo perché la mia mula si spaventava. Come vedete, anche ora si è spaventata e non vuole passare. Se non c’eravate voi qui avrei dovuto cambiare strada. Ma, scusatemi, questo qua chi è? Dall’aspetto mi sembra molto giovane e ben vestito”.

“Non lo avete riconosciuto ancora? È Mimiddu, il figlio di don Pietro. Peccato, era un giovane di fegato!… Chissà cosa avrà fatto per essere ammazzato. E poi, guardate come lo hanno sfregiato: glieli hanno tagliati e messo al collo. Si vede che hanno avuto il tempo di fare questa operazione. Per fare questo, ho l’impressione che abbia combinato qualcosa di grave con donne. Già, non può essere diversamente. Mimiddu ci sapeva fare e gli piacevano le donne. Comunque, mi dispiace, era amicu di l’amici e un vero “cancaruni” e un osso duro”.

“Già, era un veru cancaruni”, – disse il pastore calcando le parole come per dimostrare che conosceva bene il giovane ucciso – Però, sono convinto che per poterlo accoppare, lo avranno preso a inganno e dovevano essere suoi conoscenti per portarlo fino qui e ucciderlo”.

Per ricollegare i fatti di cui sopra, è necessario ritornare indietro, quando Peppe e Vito, usciti dalla casa di don Pietro, si erano diretti verso la montagna allo scopo di tagliare la strada ai due assassini che con certezza se ne tornavano a Montelepre. Quasi di corsa, attraversarono le campagne ai piedi della collina per più di un chilometro fino a raggiungere Ia curva della trazzera nel punto dove incrocia con un’altra che porta verso il mare. Erano appena arrivati al muro della curva e, credendo di essere arrivati in ritardo, si stavano consultando se proseguire per la collina ed arrivare in tempo alla portella, punto in cui lo Sciara e il suo compagno avrebbero dovuto passare. Ma proprio in quell’istante, nel tetro silenzio della notte, udirono un avvicinarsi di passi nella trazzera che precede la curva.

“Silenzio”, disse Vito a fior di labbra portando una mano sulla bocca di Peppe e, imbracciando il fucile si appostò dietro il muro che fiancheggiava la via, imitato dal compagno.

Favorivano la loro imboscata alcune piante di fichidindia addossate al muro. La luna, a intermittenza, usciva dalle nuvole sparse nel cielo spinte da un moderato vento di maestrale, per mandare qualche raggio di luce qua e là, illuminando e oscurando, ad un tempo, la zona. In quell’istante, l’ombra di una nuvola oscurava quel tratto di via dove incrociavano le due trazzere, nella curva dove si forma un trivio.

All’angolo della curva, spuntarono due uomini avvolti con mantelli. Si fermarono un attimo per decidere la via da prendere. Il trio delle trazzere distava non più di trenta metri da dove erano appostati Peppe e Vito per cui, questi poterono sentire distintamente la voce di uno dei due che diceva ai suo compagno:

“Che via facciamo? Io direi di prendere per la montagna che è più sicuro. Così evitiamo di incontrare qualcuno. Non si sa mai”.

Il compagno accettò il consiglio e girando a sinistra, si diressero verso la montagna, proprio nella direzione dove si erano appostati Peppe e Vito, ignari del pericolo che li aspettava. In quell’attimo la luna riappariva dal vano di alcune nuvole e illuminava i due che emergevano in mezzo alla via. Due detonazioni seguite da altre due contemporaneamente, echeggiarono nel silenzio della notte e i due uomini stramazzarono al suolo come fulminati.

I due uccisi, erano gli stessi che il pastore aveva visto prima che arrivasse dove giaceva l’altro cadavere, cioè quello di Domenico, ucciso dai due stranieri che, per l’imprudenza di non essersi allontanati presto dal luogo, erano stati raggiunti e uccisi da Peppe e Vito, i quali, conoscendo bene la zona, si erano serviti di un viottolo che faceva da scorciatoia, per tagliar loro la strada.

Quando don Piero aveva ricevuto la notizia da suo figlio Peppe e da Vito, non aveva detto niente in famiglia del’uccisione del figlio Domenico, per non dare l’allarme e anche perché il piano preparato che dovevano eseguire Peppe e Vito, poteva essere ostacolato.

Con una calma sorprendente da fare paura e, con una freddezza piuttosto misteriosa, passeggiava per le stanze, soffocando così il dolore e mantenendosi a stento di dare sfogo al pianto per non tradirsi. Di tanto in tanto si sedeva poggiando i gomiti sulle ginocchia e la testa fra le mani.

La moglie, al buio di ogni cosa, come di consueto nelle sere fredde d’inverno, si era messa a letto un po’ presto, ma, non poteva addormentarsi perché sentiva il marito che passeggiava avanti e indietro nelle altre stanze. Dallo spiraglio della portiera semichiusa che separava la stanza da letto da quella da pranzo, la moglie lo vedeva con le mani dietro la schiena irrequieto e che di tanto in tanto apriva la porta e guardava sulla via.

La via dove abitava il vecchio si trova quasi alla periferia del paese dal lato della montagna,  piuttosto al buio. Nei mesi d’inverno, gli abitanti di quel rione, la sera si ritiravano molto presto in casa, anche perché, in quei tempi alquanto difficili, non era prudente camminare di notte, quindi era raro che qualche persona circolasse a tarda ora. In quella notte fatale, regnava un lugubre silenzio. Solo si sentiva, di tanto in tanto, proveniente dalla campagna vicina, l’abbaiare di un cane da guardia ed il canto di qualche uccello notturno che sembrava si accompagnassero col monotono belato di una pecora di un ovile vicino. Il belato di quella pecora sembrava un lamento che, nel silenzio di quella tetra notte, dava l’impressione di un malaugurio e faceva venire la pelle d’oca soltanto a sentirlo.

Don Pietro si era affacciato ancora un’ennesima volta e mentre stava guardando sulla via da dove sarebbero rientrati Peppe e Vito, udì una scarica di fucilate; malgrado la distanza, riuscì a distinguete chiaramente i quattro colpi. L’eco delle fucilate echeggiò e rintronò sulle montagne tra grotte e valle e squarciò il silenzio della notte.

Il vecchio, nell’udire quelle detonazioni e l’eco prodotto nelle montagne, rabbrividì ed ebbe per un attimo il rimorso ed il pentimento di avere mandato suo figlio Peppe e il giovane amico Vito a compiere un altro delitto, correndo il rischio di lasciarci la vita anche loro. Ma l’istinto innato di questi uomini fanatici, lo scosse e, mentre rientrava in casa, mormorò a denti stretti ed a bassa voce:

“Sangue chiama sangue e, speriamo che sia andata bene, altrimenti, vecchio per come sono, farò l’ultima per vendicare il sangue mio, porco di giuda, e lo farò”.

Così dicendo, il vecchio stringeva i pugni in atto di sfida. La moglie, dal letto, che ancora non si era potuta addormentare, udì le ultime parole pronunciate dal marito ed ebbe la sensazione, anzi, la certezza che qualche disgrazia fosse accaduta a qualcuno dei suoi figli. Come spinta da una molla, saltò dal letto e, in camicia, si precipitò verso il marito. Quando lo vide con quell’aspetto feroce che faceva paura al solo guardarlo, il sospetto che qualche cosa fosse accaduta si tramutò in certezza. Gli si attaccò al collo e stringendolo in modo convulso e scuotendolo, gridò:

“Pietro, che cosa è successo? Tu mi spaventi, parla, in nome di Dio parla. Dove sono i nostri figli? Tu mi fai paura col tuo silenzio. Parla, per amor di Dio”.

“Ma che Dio e Dio!.,. Se pure esiste, lascialo là dove si trova. Se veramente ci fosse Dio non dovrebbe permettere che ci ammazzassimo l’uno con l’altro e… “.

Stava per dire la terribile verità, ma poi, pensò che la notizia così fulminea avrebbe potuto esserle fatale e, facendo appello a tutte le sue forze per mantenersi calmo e, abbassando il tono della voce, disse alla moglie, anche per prepararla a poco a poco prima di darle la funesta notizia:

“Non preoccuparti, Peppe e Vito verranno presto e sentiremo… Ma… Domenico… Non so dove possa essere, cosa gli sia successo. Quel benedetto figlio è stato sempre troppo imprudente. Io gliel’ho sempre detto che un giorno o l’altro avrebbe trovato la scarpa per il suo piede. Ora… Ora non so cosa gli sarà capitato. Forse… Beh! Non so cosa dire, non so niente! “.

“Pietro!… Cosa dici?… Tu mi spaventi. Che cosa è successo a Domenico? Parla, parla, dov’è mio figlio. Tu mi nascondi la verità, tu sai qualche cosa di grave e non vuoi dirmelo”.

Così dicendo la povera donna si mise a piangere scuotendo il marito che era invaso da una forte commozione e sembrava impietrito, fermo in mezzo alla stanza con gli occhi fissi verso la porta. La donna lo pregava e lo scongiurava di dirle quanto sapeva, ma egli non rispondeva alle preghiere della moglie. Di tanto in tanto mormorava qualche frase vaga, per non dare il colpo di fulmine tutto assieme. Passò così circa mezzora nell’ansia e nell’attesa e, alla povera donna sembrò fosse passato un secolo.

Un rumore di passi fuori in istrada, attirò la loro attenzione e poco dopo bussarono alla porta. Il vecchio si svincolò dalla moglie e si precipitò ad aprire. Erano Peppe e Vito, stanchi per la corsa e sporchi di fango, che ritornavano dalla loro delittuosa missione.

Appena entrati gli occhi di Peppe si incontrarono con quelli della mamma che col viso sconvolto e solcato di lacrime, sembrava l’immagine del dolore. Una scena muta gravava l’atmosfera. Si guardarono in silenzio l’un l’altro e nessuno osava parlare per paura di rivelare la verità. Ma l’amore materno ebbe il sopravvento e la donna si spinse avanti barcollando, domandando al figlio Peppe, che le corse incontro per sorreggerla:

“Che significa tutto questo silenzio? Da dove venite con quei fucili a quest’ora? Dov’è tuo fratello Domenico? Cosa gli è successo? Dimmelo, perché farmi soffrire ancora nel dubbio? In nome di Dio, parla!..”.

Peppe non seppe resistere all’appello disperato della mamma, avvolgendola con un tenero abbraccio, cercò di confortarla, ma purtroppo, non trovava altra soluzione che quella di dirle la verità. Stringendola a sé, pian piano disse:

“Coraggio mamma, doveva andare così. Mio fratello era troppo facilone nelle sue cose e, per essere così, purtroppo ha perso la vita. Ma io… Io ho fatto il mio dovere di fratello, ho regolato i conti subito”.

Poi, voltatosi verso il padre, a denti stretti disse:

“Lo abbiamo vendicato!… Dormono anche loro”.

Quest’ultima parola, venne accompagnata come un gesto di forza con la mano come per dire: ”Sono morti”.

A questa notizia la povera vecchia sentì come una fitta al cuore e annaspando con le mani nell’aria, svenne tra le braccia del figlio che stringendola a sé la sorresse per non farla stramazzare al suolo. Aiutato dal padre e da Vito, la sollevarono di peso e la adagiarono sul letto. Poi le fecero odorare un po’ di bambagia inzuppata di aceto, praticandole anche delle frizioni nelle tempie per farla rinvenire. Dopo pochi minuti essa riaprì gli occhi e guardandosi attorno, come se parlasse da sola disse:

“Allora è vero!… Il figlio mio Mimiddu è stato ucciso!… “.

Così dicendo, ruppe a piangere mormorando parole insignificanti quasi per tutta la notte. La mattina seguente tutta la famiglia di don Piero si recò dove giaceva morto Domenico.

Come si è detto più sopra, il gruppetto formato dai contadini e dal pastore, dopo essersi accertati dell’identità del morto, consultatisi sul da fare, avevano deciso di rientrare in paese e comunicare quanto avevano visto, sia alle autorità locale e sia alla famiglia di don Pietro. Ma, proprio mentre si stavano avviando alla volta del paese, arrivò la famiglia di don Pietro. Le donne che facevano parte del gruppo di famiglia, appena entrate nella trazzera e visto il gruppetto di uomini compresero che in quel posto doveva esserci il cadavere di Mimiddu e, istintivamente, si misero a piangere e ad urlare avvicinandosi.

I contadini si fermarono ed attesero l’arrivo dei familiari dell’ucciso. Rimasero molto impressionati e commossi nell’assistere alla scena dolorosa sotto i loro occhi. La povera madre correva davanti a tutti protendendo le mani in avanti e di tanto in tanto gridava pronunciando il nome del figlio, mentre il marito, la seguiva a qualche passo di distanza con il capo chino sul petto e, sebbene cercava di contenersi, dimostrava il grande dolore che provava per la tragica fine del figlio. Ma nonostante la commozione, la gente se avesse potuto vedere per un momento i suoi occhi, avrebbe visto di certo la strana luce e la freddezza di spirito che lasciavano denotare l’odio ed il rancore che pesavano su quell’indurito cuore.

Giunti sul posto, la vecchia madre, barcollando ad ogni passo, stava buttandosi sul corpo del figlio, ma si fermò di colpo portandosi le mani agli occhi e girandosi dall’altra parte per non vedere la raccapricciante posizione in cui si trovava il figlio con quel cartellino legato al collo intriso dal sangue dei testicoli.

L’istinto materno la spinse a ritornare verso il figlio, ma. a quella vista,. ancora una volta si coprì gli occhi. Alcuni parenti la sorressero tenendola per le braccia e tentarono di allontanarla per non farle vedere ancora l’orrenda scena.

Ad un tratto la povera donna, sfogando nel pianto, alzò gli occhi al cielo implorando giustizia divina. Proprio nell’alzare gli occhi, si trovò di fronte la piccola cappella posta all’angolo della viuzza. Bruscamente, con uno strattone si svincolò dalle braccia di coloro che la sorreggevano e si aggrappò alla piccola grata della cappella, in una folle scena disperata. Faceva pena vedere quella povera donna afferrata a quelle sbarre di ferro coi capelli sciolti sulle spalle e orrendamente sconvolta; sembrava un’ossessa.

Esplose in un dirottissimo pianto e parlando con la immagine della Madonna, esclamò:

“Madonna… Oh madre santissima, perché darmi tanto dolore. Tu sei stata testimone della tragedia. Proprio qui davanti a te hanno ucciso il figliolo mio. Tu… Oh Madonna, hai permesso che proprio davanti a te si compiesse un così orrendo delitto?… Perché non hai fermato la mano degli assassini anziché fare uccidere il figlio mio?”

A questo punto, il vecchio don Pietro, sentendo le parole della moglie e vedendola aggrappata alla grata della cappella, le si avvicinò e scuotendola per un braccio le disse:

“Vatti a piangere tuo figlio anziché parlare col muro. Tu credi che i santi si interessano delle cose che succedono sulla terra?… Siamo noi stessi che ci procuriamo i guai ed è inutile che poi ci rivolgiamo a Dio… Dio, seppure esiste, non può interessarsi di noi mortali. Guarda a chi stai parlando, stai parlando con un pezzo di carta stampato da un uomo qualsiasi che ne fa commercio, appeso dietro questa nicchia per ingannare la buona fede della gente credente e ignorante. Gli uomini siamo peggiori delle bestie, ci ammazziamo l’uno con l’altro per l’egoismo e per la velleità di sentirci superiori al nostro stesso prossimo, usando la prepotenza ed il puntiglio. Questo siamo gli uomini sulla terra. Il destino ce lo creiamo noi stessi con la nostro volontà, È certo che in questi fatti non c’entra la volontà di Dio”.

 

Quanto abbiamo descritto serve a dare un’idea sulla struttura di certi ambienti della Sicilia e sulle mentalità di certi uomini fanatici, alcuni dei quali non esitano a ricorrere al delitto per piccole offese, per l’istinto di superiorità tra gli uomini, dello stesso stampo, per l’appartenenza a piccoli gruppi capeggiati da individui più astuti e più risoluti, mentre altri, protetti da uomini illustri nella società e nella politica, riescono a ricattare gli stessi protettori rendendoli complici dei loro misfatti, commettendo furti e delitti a catena in nome della cosiddetta legge degli uomini della cosiddetta “onorata società”.

Don Pietro, perse ancora altri due figli sempre per gli stessi motivi di vendetta. Avrebbero continuato ad uccidersi l’un l’altro, anche tra parenti, se non fosse avvenuto un cambiamento politico di una certa importanza storica che nel giro di pochi anni, ristabilì l’ordine pubblico e la disciplina nello Stato, eliminando tutte queste cosiddette “ cosche mafiose” allora definite associazioni a delinquere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Seguimi su Facebook