Sulla verginità di San Giuseppe

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 18217014_10209635926198330_342177700_n-kEGC--656x492@Corriere-Web-Sezioni  La   festa di San Giuseppe cade a ridosso dell’equinozio di primavera,  il giorno in cui la durata della notte è uguale a  quella del giorno. A seguire, qualche giorno dopo, il 25 marzo,  è il giorno dell’annunciazione, l’inizio dei nove mesi occorrenti per il parto del 25 dicembre. Si tratta di festività tipiche di tutto il Mediterraneo legate alla dea Cibele, e a Persefone, o Kore, o, per i Romani Proserpina, che rapita da Ade, per i Romani Plutone, dio degli inferi, ogni sei mesi ritorna sulla terra per annunciare la rinascita della vita e della bella stagione, dopo lo squallore e la morte dell’inverno.  San Giuseppe è un santo “maschio” che si intromette in questo trionfo di divinità femminili, dopo la contaminazione avvenuta tra la cultura greco-romana e quella ebraico-cristiana. In mezzo, o sempre vicino a queste date, c’è la Pasqua, la festa della Resurrezione, ma anche quella del “passaggio”, che non è solo quello degli ebrei attraverso il Mar Rosso,  ma è anche un passaggio di stagione e un passaggio di spiritualità, nel senso che ci si dovrebbe disporre a un’interiore resurrezione con la scelta di un modello di vita e di comportamento diverso da quello che ci ha caratterizzato.

La rinascenza della propria interiorità va intesa in stretta correlazione con la rinascenza della natura. Cosa c’entra in tutto questo San Giuseppe? Anche lui, con il suo bastone su cui fioriscono gigli, ha qualche richiamo primaverile: nel  Protovangelo di Giacomo si legge che Maria viveva nel tempio di Gerusalemme dove era stata condotta all’età di un anno come dono per il Signore.  Quando compì dodici anni, altre fonti dicono sedici, il Sommo Sacerdote convocò al tempio  tutti gli scapoli della Giudea, onde decidere a chi affidare la ragazza, secondo alcune interpretazioni “come sposa”, secondo altre “in custodia”: la scelta sarebbe avvenuta attraverso un’indicazione divina. Quando Giuseppe, ottantenne, entrò nel tempio, il suo bastone si riempì di fiori e una colomba bianca gli si posò in testa. Il gran  Sacerdote ritenne che questo era il segnale della volontà di Dio e le affidò la ragazza. Sull’età si potrebbe avanzare qualche dubbio, poiché Giuseppe sarebbe troppo anziano per sottoporsi egli estenuanti spostamenti, da Nazareth a Betlemme e poi in Egitto, sino al ritorno e sino, nove anni dopo, al ritrovamento di Gesù nel Tempio, così come troppo anziano sarebbe per continuare il suo lavoro di falegname, per portare avanti la famiglia.

 La sua importanza religiosa è stata quella di essere stato padre “putativo” del figlio del dio e custode della verginità di sua moglie Maria. Qui nascono una serie di domande e considerazioni che spesso fanno indisporre i cristiani, e su cui non vorrei interamente inoltrarmi per evitare insulti, distinguo e considerazioni teologiche prive di coerenza logica, tipiche di chi ha certezze indimostrabili su cui si rifiuta di ragionare. Ci provo, chiedendo scusa a chi queste cose le prende troppo sul serio.

Una delle litanie, nata nella zona di Misilmeri e poi esportata in tutta la Sicilia, dice:

“San Giusippuzzu, fùstivu patri

Fustivu vìrgini comu la matri:

Maria la rosa, Giuseppe lu gigghiu:

Ratinni aiuto ri patri e cunsigghiu.”

Il canto ripropone una questione irrisolta, quella della verginità di San Giuseppe. Presumere una verginità maschile è già una forzatura logica: si può solo supporre che, secondo coloro che hanno ideato questa aberrazione e l’hanno imposta ai credenti,  San Giuseppe non abbia mai avuto rapporti sessuali nè con Maria nè con altre donne e/o uomini. E a questo punto nascono altre domande: possibile che San Giuseppe possa essere stato lontano da quelle che sono le umane esigenze della sessualità? Difficile da credere: altre tradizioni ci parlano di un Giuseppe che ebbe altri figli, idem dicasi di Maria. Quella di costringere ad accettare queste anomalie è una caratteristica del cristianesimo, assieme a quella di imitare, mutuare al suo interno, assorbire e riproporre in veste cristiana moltissimi aspetti religiosi di precedenti civiltà. Quella di ipotizzare gravidanze “divine”  è una credenza diffusa nel più grande santuario dell’antichità, a Delfi, dove si diceva che il dio Apollo, e solo lui, avrebbe potuto, con il suo “pneuma” ingravidare le sacerdotesse vergini del tempio.

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Altrettanto forzata è la verginità di Maria, diventata dogma solo con il Concilio Vaticano primo, cioè nel 1854, mentre, per contro, quella di San Giuseppe è rimasta solo una caratteristica della tradizione popolare. Nel caso di Maria ci si trova davanti a una banale considerazione: ammesso che Dio abbia potuto ingravidare Maria senza l’atto sessuale, nel momento in cui il bambino è uscito dall’utero, la verginità dovrebbe essere venuta meno. Leggiamo su Wikipedia: “Non essendo la verginità fisiologicamente determinabile nell’uomo per motivi morfologici, essa è uno stato fisico osservabile nelle sole donne: nelle donne vergini l’ingresso della vagina è parzialmente occluso da una sottile membrana chiamata imene che viene lacerata durante la prima unione sessuale completa con un uomo: la lacerazione dell’imene, o deflorazione, comporta quindi la perdita fisiologica della verginità”. L’imene si sarebbe, anzi si è certamente lacerato quando è venuto fuori il bambino.

Perchè farci credere, obbligarci a credere che invece Maria è rimasta vergine? Per quanto se ne sa, Cristo non è nato col parto cesareo. Si badi, alcune di queste considerazioni sono state già fatte dal grande teologo Hans Kung, al quale è stata poi tolta la cattedra universitaria. Si può ipotizzare, con il rischio di incorrere in un’eresia, che quella di Maria è una verginità simbolica, quella di una donna che non ha mai avuto un rapporto col sesso maschile, considerato come un elemento che avrebbe potuto “macchiare” il candore “virginale” di Maria. Ma corriamo il rischio di cadere in una delle tante dispute teologiche, come quella della transustanziazione e della consustanziazione tipica della Controriforma, ovvero se Dio “transit”, passa “in substantia” nella sostanza dell’ostia, che diventa a tutti gli effetti corpo di Dio, o se Dio è “cum substantia”, cioè sta assieme alla sostanza dell’ostia, ma non è l’ostia. Si presume che il credente ortodosso non possa accettare la verginità simbolica, ma sosterrà che si tratta di verginità reale perché Dio, che può tutto, ha disposto così.

Dai Vangeli apocrifi, in particolare da quello di Tommaso, si apprende che Giuseppe si arrabbiò moltissimo quando, di ritorno da un viaggio di lavoro, trovò incinta Maria, la sua sposa bambina, e si calmò solo quando gli apparve il solito angelo Gabriele a dirle che era stato Dio a fecondare Maria. A parte il palese caso di adulterio, attribuibile non a Maria, che è ignara di tutto quello che succede, che sa di essere stata prescelta al momento dell’annunciazione, quindi senza il suo preventivo consenso, siamo davanti a un chiaro esempio di fecondazione eterologa, perchè se è vero che Dio può tutto, nelle umane leggi della biologia  è previsto che per la procreazione ci vuole il seme maschile. Ecco, non volevo scendere in questi particolari, perchè la Chiesa condanna, sino ad oggi, sia l’adulterio che la fecondazione eterologa, per non parlare del rapporto sessuale, considerato da sempre un peccato, anche se, come dice san Paolo, strenuo difensore dell’astinenza sessuale,  è un  “remedium concupiscientiae”.  Quanto si riuscirà, e credo che questo avverrà nel tempo, a superare i tabù della sessualità, molte di queste credenze non avranno più motivo di esistere, neanche quella della forzata verginità di  San Giuseppe e di Maria, e, se vogliamo, anche di Cristo, ai quali è giusto attribuire tutto quello che possa renderli uguali o simili agli  altri “umani ” , anche il diritto di avere una sessualità. Per non parlare dell’anomalia dell’istituzione di una festa del papà nel giorno di un santo che fu solo padre putativo.

Ma San Giuseppe è anche patrono dei lavoratori. La sua festa infatti si celebra anche il primo maggio. La trovata fu di Pio XII che  il primo maggio 1955 istituì la festa di San Giuseppe Artigiano: era un tempo in cui il pontefice era seriamente preoccupato dell’avanzare del comunismo tra tutte le varie categorie dei lavoratori e, non potendo cambiare la data, ormai riconosciuta in tutto il mondo, cercò di “cristianizzarla” ,con riferimento a Gesù. Chiamato nei vangeli “figlio del carpentiere”, che avrebbe appreso dal padre il mestiere e che servirebbe da riferimento ai lavoratori cristiani per salvaguardare la dignità del lavoro, inteso come mezzo per conseguire la salvezza eterna

Come illustrato da questo santino della mia collezione, si noti la scritta “San Giuseppe santo patrono della buona morte”. Nella parte posteriore c’è una preghiera della buona morte il cui imprimatur è stato rilasciato a Milano il 27 ottobre 1900 dal sac. (che si presume cardinale) Johannes Rossi. Cosa c’entra Giuseppe con la buona morte? Nulla. Si tratta di quelle intuizioni venute fuori a qualche prelato e poi accettate dal resto dei fedeli: la motivazione è che San Giuseppe sarebbe spirato tra le braccia di Gesù e di Maria, e quindi, quale morte migliore?

Ecco uno stralcio di preghiera: “O morte beata! Se non posso, come Giuseppe, spirare tra Gesù e Maria, visibili ai miei sguardi, possa io almeno, sulle mie labbra moribonde, unire il vostro nome, o Giuseppe, ai nomi di Gesù e di Maria!”

Nota: questo articolo, postato un anno fa, viene riproposto con alcune integrazioni

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