Peppino Impastato e il gioco delle utopie possibili (Giuseppe Casarrubbea)

  1. Casolari della morte e ville dei misteri

97 Casarrubea a Portella 2004
Il lunedì precedente le elezioni amministrative del 1978, fu un giorno singolare, a Cinisi. Radio Aut, l’emittente radiofonica che Peppino Impastato aveva fondato a Terrasini, e che da quasi un anno costituiva l’unica credibile fonte di informazione in quella zona nella quale da sempre avevano comandato uomini tanto potenti quanto feroci, sonnecchiava tra le poltrone bisunte e vuote e gli spifferi carichi di vento furioso e di salsedine, che si infiltravano tra le persiane devastate dal tempo, percorrendo le stanze umide, quasi cadenti, al primo piano del corso Vittorio Emanuele III, n. 108. In compenso la strada si apriva sul mare e lasciava quasi sperare, proprio per questa sua caratteristica, in un bel tempo che, invece, non c’era. Era una settimana piovosa, grigia, e tra quelle quattro pareti disadorne, il cuore si stringeva come preso dallo smarrimento, dalla solitudine, da un’aria plumbea, quaresimale. Ci si vedeva, quel giorno, per scambiare qualche battuta; per ascoltare, trasmessa da “Radio Ter­ra­sini Centrale”, l’intervista, censurata, che Peppino aveva concesso in quella campagna elettorale che andava a chiudersi la domenica successiva, 14 maggio; ma anche per assicurare un minimo di presenza alla radio, di compagnia al gruppo redazionale.

Giosuè e Peppino stavano ancora a discutere sulla mostra “Mafia e ter­ritorio”, esposta nella piazza del paese il giorno prima, quando la conversazione dei due fu interrotta dall’arrivo di Giovanni, un compagno di Pep­pino che lavorava a Palermo. Era visibilmente preoccupato, teso in viso. Giosuè si avvicinò al balcone e Giovanni gli comunicò che suo cugino Giuseppe Amenta, che era anche suo datore di lavoro, lo aveva avvertito di non tornare a Cinisi perché «in quei due giorni sarebbe successo qualcosa di grosso».

La prima sensazione è che Peppino sia in pericolo. Giovanni vuole dirglielo, chiamarlo in disparte, buttarglisi addosso, bloccarlo lì, tra quelle pareti umide, in quella poltrona dove il suo compagno era solito spro­fondare, per conversare, o per meditare. E invece no. C’è qualche screzio tra i due – dai tempi dell’occupazione della radio, una vicenda che aveva creato dei dissapori – che non gli consente di farlo subito. Parla al­lora con Giosuè, va al bar con lui a prendere un caffè, gli racconta più in dettaglio quello che gli è successo. Al ritorno Peppino è lì, per qualche mi­nuto ancora. Poi dice che va a cenare a casa, che sarà di ritorno alle ven­tuno, per la prevista riunione elettorale. Giovanni guarda Giosuè, gli chiede con gli occhi che deve fare. Seguirlo con la macchina, accompagnarlo? Pep­pino, si dicono i due, sarebbe tornato da lì a poco; e poi, quante altre volte erano arrivate minacce di quel genere?

Sono le venti e quindici. Da questo momento gli attimi, le parole, i si­lenzi, le attese, le azioni dei compagni di Peppino sembrano collocarsi in un’atmosfera del tutto nuova, quasi surreale, fuori dalla vita quotidiana. Invece è questa la vita quotidiana, autentica, grave e profonda, che rompe il ritmo ordinario, e pulsa a un tempo di morte e di vita, di tragedia e di speranza. È la Sicilia secolare. Quante altre volte era successo prima? Giosuè e Giovanni pensano: – quello che deve succedere, se è vero, succederà nei prossimi due giorni, non proprio adesso.

Tutto si svolge come visto alla moviola: Salvo alle venti e quindici circa scende pure lui le scale, sale in macchina con Peppino, che lo lascia davanti casa sua, cento metri più sotto. «– Ciao, vado a salutare i miei pa­renti americani a Cinisi, ci vediamo alle nove». Lo vede scomparire alla traversa del municipio, e, mentre apre la porta di casa, vede passare e girare una macchina nera di grossa cilindrata.

È da tempo che Peppino non vive giorni così intensi. È carico e la cam­pagna elettorale va, tutto sommato, bene: con le denunce di Radio Aut, adesso meno attiva per via di un impegno propagandistico porta a porta, la mostra sulla devastazione del territorio in piazza, le riunioni senza troppe chiacchere e fumo, ma operative, i comizi. L’ultimo, nella sua agenda, è segnato all’11 di quel mese, giorno di chiusura della campagna elettorale.

Quella sera, però, alle ventuno Peppino non torna. I suoi compagni si mettono subito in agitazione. Che si stesse avverando quello che si temeva? Alle ventuno e trenta Giosuè, Giovanni e Benedetto vanno a Cinisi, incontrano Vito e Matteo che passeggiano a piedi nel corso. Neanche loro lo hanno visto. Continuano a passeggiare in macchina. Più tardi incontrano Carlo che, con Matteo, si mette pure lui alla ricerca, mentre Vito inizia a fare la spola, frenetica, da un capo all’altro del corso.57 escursione

Qualcuno lo segue insistentemente. È Salvatore Pizzo, un muratore. Un illustre sconosciuto fino a questo momento. Ma Vito ricorda di avere notato, nella campagna elettorale del ’76, che questi aveva chiamato in disparte Peppino e aveva conversato con lui per alcuni minuti; analoga cosa aveva fatto un’altra volta al circolo “Musica e cultura”. Dopo la morte di Peppino la sua macchina è stata vista posteggiata vicino alla casa di don Tano Badalamenti, il capo indiscusso della cupola mafiosa, fino ai primi mesi di quell’anno, quando i corleonesi decidono di “posarlo”.

Sono le ventidue e trenta, le ventitrè. Una sensazione curiosa è data dalla particolare animazione dei bar del corso, dovuta alla inconsueta presenza di mezze figure di mafiosi. Forse molti sapevano, tra quelli che stavano dall’altra parte, volevano guardarsi la scena, osservare con soddisfazione quel gruppo sparuto di animali inseguiti, mentre il loro capo veniva portato al patibolo. Ma tutti, vittime e carnefici, sono su una strana ri­balta, dove la gente, oltre che dai bar, è abituata a guardare dai soppalchi, dalle persiane semichiuse, da quelle case basse e quasi tutte uguali, schiacciate dal terrore e dall’omertà.

C’è una grande voglia di ritrovare Peppino, di sapere che gli è successo, dove si trova; se possibile anche per difenderlo. Partono quattro o cinque macchine; in una ci sono Giovanni, Giosuè e Benedetto. Si dirigono a casa di Nino Lupo, un amico dal quale Peppino era solito recarsi. Nino non ha dubbi. Esclama: «nni ficiru minnitta!» (lo hanno maciullato). In un’altra macchina ci sono Carlo e Faro, in un’altra Vito e Matteo. Percor­rono la via litoranea che Peppino era solito fare quando, uscito da Radio Aut, andava da Terrasini a Cinisi; setacciano le trazzere, dalla spiaggia di Ma­gaggiari alle Quattro vanelle. Percorsi stretti, dai quali bisogna ritornare a marcia indietro. In una di queste strade, la penultima, Faro e Carlo notano, due villini, a sinistra, con le luci accese. Che i proprietari abbiano deciso di anticipare la villeggiatura di due mesi? La squadra di Gio­vanni si organizza in modo analogo e setaccia tutte le stradine che costeggiano le vie principali che collegano Terrasini a Cinisi. È l’una e mezza.

Nella strada che si snoda lungo l’aeroporto ci sono tre trazzere, sulla de­­stra, vanno a finire alla ferrovia, sotto l’autostrada. Sono corte, per ispezionarle è sufficiente guardare dall’imbocco. Chi ha ucciso Peppino le conosce talmente bene che sa che una di queste, in fondo, ha uno spiazzo sulla sinistra, quanto basta per nascondere delle macchine, quelle degli assassini, e di Peppino. Ma Faro e Carlo non sanno di questo particolare, vedono la trazzera libera, un casolare nella penombra, tornano indietro.

Tutti tornano indietro. Al bar Munacò sono ancora svegli molti ra­gazzi del PCI. C’è il solito fermento che nei paesi caratterizza gli ultimi giorni di campagna elettorale. Anche loro danno una mano, si uniscono agli altri, anche se è notte fonda. Anche Giampiero si mette alla ricerca del suo compagno. Ricorda quando fecero l’ultimo tentativo di andare a cercare Peppino da sua zia, alla stazione. Ritornando in paese, dopo una estenuante ricerca, ebbe l’impressione che qualcosa si fosse spezzato in lui. Il paesaggio notturno e le luci della strada gli avevano scavato dentro un vuoto incolmabile. Forse per lo sgomento della solitudine, per l’assenza dello Stato, o per la sua inaffidabilità, per l’allucinazione della morte addosso, o per la lucida consapevolezza di essere soli nel quartiere generale di una delle più pericolose e agguerrite famiglie mafiose della Sicilia. Non era solo un addio a Peppino. Quando poi seppe che era saltato in aria, continuò ad essere attivo per qualche tempo, dopo si chiuse in casa ri­fiutandosi di uscire, per più di dieci anni. Aveva ragione; nessuno poteva difenderlo. Nell’ ’81, quando fu ammazzato Nino Badalamenti, il cu­gino e successore di don Tano, si scoprì uno dei luoghi in cui le famiglie mafiose locali prendevano le loro decisioni di morte. Era un vecchio villino tra Cinisi e Villagrazia di Carini, completamente vuoto, tranne una stanza arredata con un tavolo rettangolare e otto sedie, sei normali e due con spalliere più alte e soffici cuscini. Tutte le porte erano blindate, le luci blu, molto tenui, abbastanza curiose. Qui, dissero i carabinieri, si sono seduti temibili boss, si sono insediati i tribunali di morte, si sono fatti affari colossali. Per Peppino nessun altro tribunale ha funzionato. Né tanto meno quelli della giustizia.

 Tritolo e mafia

 L’esplosione dovette verificarsi dopo il passaggio dell’ultimo treno del­la linea Palermo-Trapani. Alle ore 1,40 del 9 maggio ’78, il macchinista della ferrovia che transita con la propria locomotiva in località feudo di Cinisi, avverte un forte sobbalzo e, impressionato, si ferma. Scende e constata che un tratto del binario è tranciato. Atterrito informa il dirigente della stazione ferroviaria, un certo Giuseppe Puleo, che, a sua volta, due ore dopo, alle 3,45 avvisa i carabinieri del luogo che accorrono prontamente. Essi constatano che la rotaia è, in effetti, divelta e che brandelli di resti umani e di indumenti sono sparsi nel raggio di 300 metri. No­tano anche che a circa venti metri dal punto di esplosione si trova la 850 di Fara Bartolotta, la zia da cui Peppino aveva avuto la macchina in prestito. La presenza della vettura e il riconoscimento degli indumenti de­pongono per l’identificazione della persona deceduta con Giuseppe Im­pastato. A questo punto la vicenda politica e umana di Peppino sembra concludersi. I carabinieri seguono immediatamente la pista del suicidio/ attentato terroristico e chiudono il rapporto in questo senso. Così, mentre a Roma le brigate rosse fanno trovare, proprio quel 9 maggio, il corpo esanime di Moro, a Cinisi, a un brigatista – dicono – è andata ma­le. Nes­sun dubbio li sfiora: né il fatto che il dirigente di Democrazia Pro­letaria avesse ricevuto delle lettere minatorie, né che lo stesso fosse impegnato in prima persona nella lotta contro una delle principali famiglie mafiose della Sicilia, né che il giorno prima una mostra fotografica avesse denunciato, con nomi e cognomi, coloro che egli indicava come i re­spon­sabili dello scempio del territorio, quali erano i fratelli Giuseppe e Ma­nuele Finazzo che quella domenica, 7 maggio, non senza tracotanza, avevano pure visitato quella mostra che li accusava, non lasciandoli certo in­differenti. Quel che è peggio è che le indagini, partite col piede sbagliato, non terranno conto, sin dall’inizio, di molti particolari, con grave compromissione di tutta l’impostazione processuale.

La strana e pregiudiziale convinzione che ci si trovi di fronte a un atto terroristico, accomuna le valutazioni di carabinieri e mafiosi. I primi collocano le indagini su una pista sbagliata; i secondi fanno da cassa di risonanza dell’opinione che un esaltato stesse provocando una strage, non raggiungendo lo scopo e rimanendo vittima del suo stesso progetto.

Ma vediamo più da vicino alcuni di questi dettagli.

  1. La sera del delitto Peppino percorre, come era solito fare, la litoranea che collega Terrasini a Cinisi. Sono pochi chilometri, pochi minuti; solo uno come lui – che non guidava, che non aveva mai voluto la patente, forse per un suo particolare rapporto con la macchina, o con lo spazio o col movimento – poteva avventurarsi, di sera, per quella strada, che, ol­trepassata Magaggiari, dopo la trattoria “Andrea”, diventa cupa, folta di canneti, senza anima viva, intessuta di trazzere e vecchie case di campagna. Ad un certo punto, il rettilineo incrocia una trasversale che, a destra, sale diritta verso Cinisi, per il corso principale. Peppino avrebbe dovuto seguire questa strada, girando a destra. Invece, quella sera, la sua macchina prosegue diritto, ancora un pò più avanti, per occultarsi sul fondo di una di quelle trazzere, e precisamente quella che serviva un appezzamento di terra con rustico di proprietà del farmacista Venuti, pure lui di Ci­nisi. È molto probabile che Peppino sia stato bloccato prima di giungere all’incrocio, con un pretesto qualsiasi e, stordito, magari con un colpo in te­sta, sia stato condotto sul posto del delitto. Non ci sono tracce di sangue nella macchina, né questa presenta segni di urto o di un’avvenuta colluttazione. Ma tutto lascia pensare che, proprio a partire da questo punto, gli assassini abbiano messo in opera la loro trappola mortale. Al­trimenti si dovrebbe dar credito a quanto asserito dalla proprietaria del bar Munacò di Cinisi, Anna Maniaci, la quale, nove giorni dopo il delitto, dichiarava ai carabinieri che la sera dell’8 maggio, Giuseppe Im­pastato, tra le 20,30 e le 20,45 era entrato nel suo bar per bere un “whisky 69”. Cosa che appariva improbabile sia perché chi conosceva Peppino non gli aveva mai visto bere quel tipo di alcolico, sia perché quella sera egli, a quell’ora, non era stato visto da nessuno nel suo paese, dove, per al­tro, proprio a quell’ora, era atteso dalla madre e dalla cugina alla quale ab­biamo accennato. E, tuttavia, supposta per vera l’affermazione della Ma­niaci, si deve ritenere che, avendo essa affermato che Impastato appariva “normale”, doveva essere lì ad attendere qualcuno che, avendolo in­contrato mentre saliva in macchina dal corso, lo aveva pregato di aspettarlo al bar con un pretesto qualsiasi. Anche in questo caso la tesi iniziale avrebbe dovuto essere quella dell’omicidio. Ma c’è da chiedersi: quale assassino avrebbe scelto questa soluzione piuttosto che quella di bloccare la sua vittima in un luogo assolutamente isolato e buio?

  2. Sul luogo del delitto Peppino è stato condotto in stato di incoscienza. A guidare la sua macchina c’era il suo assassino o un suo complice. E difatti, scrive il giudice Caponnetto, l’ipotesi dell’omicidio è suffragata da una serie di dati, non ultimo «il rinvenimento di tre chiavi vicino alla macchina di Impastato e precisamente accanto alla portiera destra, cioè accanto al posto guida di chi si trova vicino al guidatore, l’una vicino all’altra, mentre una quarta chiave (“un chiavino del tipo Yale”) venne ritrovata perfettamente pulita, ossia senza alcuna traccia della tremenda esplosione, a circa cinque metri dal punto dell’ esplosione stessa, nei pressi di un cespuglio, tra la parte sterrata e la massicciata».

Non si sono mai saputi i nomi dei proprietari di queste chiavi, né qua­li impronte digitali avessero lasciato su di esse o sulla macchina. I no­mi dei possibili indiziati li aveva fatti Peppino nella sua campagna elettorale. E se le chiavi fossero appartenute a lui, non era altrettanto evidente che qualcuno, nel tirarlo fuori dalla macchina, dal lato destro, le aveva fat­to cadere, inconsapevole della loro esistenza? È, comunque, curioso che la mattina del 9 maggio i carabinieri entrarono nella sede di Radio Aut, senza avere forzato la porta. Di quali chiavi erano forniti?Casolare Ottobre 2011 054

  1. Di buon mattino avevano già terminato tutti i loro rilevamenti. Sa­ranno alcuni volontari, l’11 maggio, a tentare di individuare ogni elemento possibile da consegnare all’attenzione di chi avrebbe potuto prestare fede a una versione diversa da quella fornita da carabinieri e mafiosi. Operazione difficilissima, ma che fu resa possibile grazie alla disponibilità del prof. Ideale Del Carpio, libero docente dell’Istituto di medicina legale dell’Università di Palermo, di un gruppo di studenti del collettivo politico della facoltà di medicina, dei compagni di Peppino. In questo sen­so, quello stesso giorno, partiva un esposto per la Procura della Re­pub­blica firmato da Francesco Carlotta, Giuseppe Barbera e Paola Bon­san­gue, mentre ci si dava da fare per rinvenire tracce utili alle ricerche. Lo sforzo fu produttivo perché i compagni di Peppino raccolsero dei resti umani che conservarono in un sacchetto di cellophane. Andrea e Ferdi­nando Bartolotta, Vito Lo Duca e Pino Manzella notarono cinque macchie di sangue all’interno del casolare, tra la parte superiore più esterna di un sedile, che i cinisensi in dialetto chiamano “ricchiena”, e la soglia della porta, e prelevarono “da un locale a nord della casa rurale” una pietra con­tenente altre macchie di sangue. Data l’ora tarda, quei miseri resti, quel giorno, furono custoditi in una casa di campagna di proprietà di un compagno di Peppino, Pino Manzella e l’indomani furono consegnati all’Istituto di medicina legale. E sarà a seguito di una ispezione giudiziaria che i periti presenti al sopralluogo noteranno, anche loro, su una grossa pietra infissa nel terreno del caseggiato rurale di cui si è parlato, una macchia di sangue. I successivi accertamenti ematologici consentiranno di stabilire che si trattava di sangue umano del gruppo “O-CD”, lo stesso di quello di Peppino, e di cui, al momento del rinvenimento, era macchiata la sua camicia.

Dunque, secondo un calcolo assai probabile della dinamica del delitto, Peppino fu bloccato sulla litoranea Terrasini-Cinisi, presumibilmente da due-tre persone; fu stordito (nel modo in cui si è detto o, forse, con un tampone di cloroformio, o altra analoga sostanza anestetizzante) e fatto passare accanto al posto guida nel tratto che va dal rettilineo che precede l’in­crocio della litoranea con la strada per Cinisi, all’incrocio stesso. Quin­di fu condotto, con la sua stessa autovettura, fino al caseggiato rurale del Venuti. Erano presumibilmente le 20,30. Qui venne sottoposto ad atroci torture, finché il suo corpo, sanguinante, fu adagiato a terra con la testa poggiata sul lato più stretto del sedile al quale abbiamo accennato. Pro­prio su questo lato furono fotografate altre macchie di sangue che visibilmente qualcuno aveva cercato di cancellare. Nelle condizioni in cui Pep­pino si trova, tutto lascia pensare a un’aggressione violenta. Ma se lo avessero lasciato così lo scopo di quel barbaro assassinio sarebbe fallito. I suoi carnefici vogliono ucciderlo due volte. Per mettere in opera la seconda parte del loro macabro piano non devono fare altro che attendere, perché l’ultimo treno passa dodici minuti dopo la mezzanotte. Quando lo di­stendono sulla rotaia con quattro chili di tritolo attaccato al petto, Peppi­no è forse ancora vivo. Forse nell’agonia sente i suoi carnefici, e sa che quell’esplosivo di cui essi parlano è quel DNT – dinitrotoluene – di­cono gli accertamenti tecnici – usato “anche nelle cave”. Ma mai nessuna indagine fu fatta per accertarne la provenienza da una di quelle numerose cave che erano state oggetto delle sue denunce. Ad esempio, da quella di Parri­ned­du alias Percialino, come lo chiamava Peppino. In compenso gli assassini ebbero tempo e modo di far pesare la loro persecuzione silenziosa sui vari membri del gruppo di Peppino, perché si andassero a rintanare, o si sentissero sotto tiro.

La notte del 12 – racconta Pino Manzella – la mia casa di campagna, dove la notte precedente si erano custoditi i resti di Peppino, fu “visitata” da ignoti che scassarono la porta e misero tutto sottosopra. Evidentemente gli assassini avevano seguito tutte le nostre mosse. Denunciai il fatto ai carabinieri – continua – perché ero sicuro che, essendo in corso delle perquisizioni, qualcuno avrebbe potuto occultare delle armi per confermare le tesi dei mafiosi locali. Ma può darsi che volessero semplicemente ammonirmi o sapere cosa avevamo trovato. Tutto il gruppo fu tenuto sotto controllo dalla mafia, per qualche tempo – conclude –. Ricordo che una macchina targata Modena (si diceva che don Tano avesse delle fabbriche di ceramica in provincia di Modena) attraversava la strada al momento in cui andavo a chiudere la mia macchina nel garage. Oppu­re ricevevamo delle telefonate, non rispondeva nessuno. Volevano accertare se eravamo dentro e darci la sensazione che ci controllavano.

«Lo dissi a Caponnetto e a Borsellino – dice Felicia –. Ad uccidere mio figlio sono stati i sicari di Tano Badalamenti. E chi suggerì l’omicidio fu un politico. A lui si deve attribuire la messinscena dell’attentato terroristico. Un politico locale che rimase tre giorni senza venire a Cinisi». Il delitto, in effetti, è costruito politicamente, è una montatura che per il modo in cui viene concepita lo rende abbastanza inconsueto nello stile e nella simbologia mafiosa. I mafiosi, solitamente, ammazzano una volta. Anche Sciascia allora ebbe a definire il delitto come atipico. «La mia casa – dice Felicia – si riempì di sbirri, cercavano il terrorista. Anche il paese era pieno zeppo di sbirri, e camionette». Si doveva dare l’impressione che a Cinisi ci fosse un nucleo armato delle brigate rosse. Di buon mattino, quando i compagni di Peppino arrivano sul luogo del delitto, vengono bloccati come sospetti, e indicati dai presenti come appestati. Quella mattina Rosa Battagghia, sorella di don Tano, che aveva un negozio di ge­neri alimentari, disse a Stefano Venuti che si era recato a fare la spesa: «Sai che il tuo amico è saltato in aria mentre stava facendo un attentato?». In­somma, la parola d’ordine che i mafiosi avevano diffuso era che Peppino fosse un terrorista che aveva fatto la fine che meritava, come Feltrinelli. Alle otto del mattino i carabinieri, avevano già setacciato i locali di Radio Aut, e subito dopo si erano recati in giro per le ulteriori perquisizioni. Ma non in casa dei mafiosi, ma degli amici di Peppino, già convocati in caserma. Sequestrarono: a casa di Giampiero un numero di Panorama del maggio del ’75, con la stella a cinque punte delle brigate rosse, in copertina; una domanda di pensione di suo padre, fotografie di una scampagnata fatta con amici, e un libro, Anatomia della distruttività umana, il cui autore, Erich Fromm, i carabinieri dovettero scambiare per un teorico del terrorismo, a giudicare dal titolo; a casa di Giovanni un opuscolo sull’energia nucleare (poteva essere stato utile per la costruzione della bomba?!), una paletta da vigile urbano che era servita alla scuola elementare per una lezione di educazione civica, qualche libro; Vito, invece, si vide portare via un giravite, un saldatore, una morsetta, del filo e altro ma­teriale che solitamente si tiene in casa per qualche riparazione. Quelli di Terrasini, come Andrea e Faro, fecero in tempo a recarsi a casa per stracciare i numeri di Lotta continua; Giosuè distrusse il Testamento di Sartre, non si sa mai, mentre salvò Lotta continua perché mescolata col Secolo di cui il padre era abituale lettore. Anche la casa di Giovanni, fratello di Peppino, fu perquisita. Erano le cinque del mattino. I carabinieri lo buttarono a terra dal letto, si portarono via una montagna di libri, lo spedirono in caserma. Tre ore di interrogatorio. Alla fine gli comunicarono che suo fratello poteva considerarsi un caduto sul lavoro perché – dissero – era morto mentre faceva il suo mestiere, quello del terrorista.

 

  1. La ricerca del gruppo e il gioco delle utopie possibili245 _lunga è la notte

Le prime idee controcorrente, in un ambiente in cui cultura mafiosa e cultura sociale tendono a coincidere, Peppino le apprende dal cordone ombelicale della madre, dalla nonna materna Girolama, dallo zio Matteo e dalla zia Fara presso i quali, all’età di quattro anni, va a vivere, in corso Umberto, 220. Il padre Luigi, di famiglia mafiosa, e la madre Felicia Bar­tolotta, figlia di Giovanni, un antifascista convinto, pensano di allontanarlo dal fratello Giovanni affetto da una non precisata malattia infettiva e che da lì a poco morirà. Abituatosi a vivere con gli zii materni, Peppino preferisce rimanere con loro anche dopo la morte del fratello (1952) e la successiva nascita, nel 1953, di un altro fratellino al quale i genitori mettono il nome di Giovanni. Lo zio Matteo, soprattutto, si premura di mandarlo a scuola, di dargli un’educazione che non è quella di don Luigi. Così Peppino frequenta il meno possibile la casa del padre. Ma sentiamo una testimonianza della madre raccolta in occasione della preparazione di questo libro:

«Una volta c’era la festa – ricorda Felicia – e me lo portai. Lui se ne volle tornare dagli zii, temeva di dormire a casa mia. Non stava comodo a casa mia. Mio fratello lo faceva studiare. Studiava, finché non si sbintò (perse la testa) con la politica. Mio fratello non aveva una particolare idea politica, però seguiva la politica; era intelligente, di idee liberali nel senso generale del termine, era amico di Stefano Venuti, comunista. Quando morì mia madre (1962) e mia sorella si sposò andandosene a stare alla stazione – continua Felicia – restò solo con mio fratello (1959). Io lo andavo a trovare, gli preparavo i pasti, facevo la pulizia, quello che c’era da fare. Mentre fu vivo lui la barca andava bene; quando morì lui, nel 1969, la barca si sfasciò. Allora Peppino andava al liceo. Con me era affettuoso. Una volta mi disse: – io vengo a trovarti in questa casa perché mi fai pe­na. Certe parole non me le posso dimenticare di questo figlio. Era terribile, af­fettuoso. Quando lui non era in questa casa dicevo a Giovanni: “Lo hai visto Giu­seppe?”, “Sì, vengo da Giuseppe” mi rispondeva. Mi mettevo dietro questa persiana al buio, lui come faceva a vedermi? Una volta ero lì dentro che stiravo, lui bussava, ma io non lo sentivo. Sempre di nascosto da mio marito, salì da una grondaia, sfondò la porta del balcone, entrò e mi abbracciò. Mi spaventai. – Che combini? – gli dissi. Sembrò che avesse fatto un furto, una arrubbatina. Tanta era la paura che io avevo di mio marito che lo aveva buttato fuori, quando aveva cominciato a fare attività politica, e non voleva che entrasse in casa. Questa è casa mia; ma prima abitavo a casa affittata, dove sono stata per ventisette anni, in via Regina Margherita, vicino la scuola media».

Don Luigi Impastato non è il mafioso che utilizza la mafia per arricchirsi; è di vecchio stampo; la sua formazione è fondata su una cultura fatta di omertà, regole sociali che privilegiano l’accettazione acritica del potere, ubbidienza, un particolare senso dell’onore, tutto maschilista, scarsa comunicazione dentro la propria famiglia naturale, dove nulla può essere messo in discussione. Il modello educativo che egli propone implicitamente ai figli, è all’opposto di quello vissuto esplicitamente dal co­gnato. Sono rarissimi i momenti di incontro di tutta la sua famiglia. Pau­se di serenità sono i mesi estivi trascorsi nella campagna situata ai Mona­chelli, di proprietà di Cesare Manzella – il vecchio mafioso che per primo aveva sperimentato come si muore in una Giulietta carica di tritolo – la cui moglie era sorella di don Luigi. Dopo la morte dello zio Matteo, Peppino rimane solo in corso Umberto, per qualche tempo, finché, non decide di andare ad abitare per conto suo, lontano dalla vecchia casa dei nonni materni, in via Roma. Siamo nel ’69, ai tempi della fondazione del circolo “Che Guevara”, «quando – dice Giovanni – con Peppino facevamo un lavoro di controinformazione sulla strage di Piazza Fontana». Nel ’71 don Luigi, Felicia e Giovanni vanno ad abitare in corso Umberto, e Peppino va a stare con loro. Una parentesi di un paio d’anni.   «Poi – aggiunge Giovanni – io e Peppino partiamo per il militare; lui aveva avuto il rinvio essendo iscritto alla Facoltà di lettere e filosofia. Andò a Udine, io prima a Cesano di Roma, dove c’era una scuola ufficiali, poi a Cividale, nel Friuli».  Ma Giovanni aveva una fìstola e Peppino non aveva nessun amore né per le armi né per la caserma. E così mamma Felicia si adopera perché il servizio militare dei suoi figli sia quanto meno pesante possibile. Tutte le volte che può, Peppino marca visita ed è a casa. Ma da dove deriva le sue idee? Chi sono i suoi primi compagni? Risponde la madre:«Era a Partinico, al liceo classico e frequentava due ragazzi che leggevano i giornali, erano comunisti….».  Aggiunge Giovanni: «A Cinisi c’erano Andrea Bartolotta, e Nino Badalamenti il dottore, che erano suoi compagni di scuola».  E Salvo:: «C’erano anche Romano Maniaci del PCI e Saverio e Angelino Sgroi, del PSIUP».  

A Partinico ebbe come preside Nanà Lo Bianco, un vecchio socialista dei tempi di Portella delle Ginestre, e come professore di filosofia Vin­cenzo Santangelo. Peppino, insomma, cresce tra compagnie minoritarie che vogliono rompere con un ambiente stagnante; risente molto dell’enorme affetto della madre e dello zio, ma, soprattutto, dell’odio del pa­dre. Fin da piccolo è alla ricerca, difficile e scomoda, della sua identità. Trova pochi orientamenti, pochi modelli capaci di appagare il tumulto dei suoi bisogni: la figura, quasi leggendaria, del capostazione Peralta che aveva rifiutato di prendere la tessera del PNF e per questo motivo si era ri­dotto alla fame; o quella aristocratica e anticonformista del pittore Ste­fano Venuti, che aveva alle sue spalle il confino di Favignana (1936-1938), l’esperienza della prigionia di guerra in Egitto. Tornato a Cinisi nel giugno del ’46, Stefano aveva fondato con Filippo Maniaci, figlio di un mafioso locale, la sezione del partito comunista. Modelli libertari di educazione che lo zio Matteo gli consente di assimilare come primi riferimenti di una formazione che si veniva costruendo a metà tra mondo sognato e tragica realtà, bisogno di politica e studio. E, ancora una volta, era lo zio Matteo che, nei momenti più difficili, si rivolgeva a Stefano e gli diceva: – «Tu solo ci puoi, digli che prima di occuparsi di politica, studi». Egli, insomma, per Matteo, poteva avere qualunque idea politica, ma era necessario che in quella dialettica tra mondi diversi, il bisogno, forse, di utopia e la padronanza del mondo, quest’ultima avesse la propria supremazia.

«Apprese molto da mio fratello – dice Felicia –, a non essere aggressivo. Quando mio fratello morì – spiega – mi sembrò che la casa mi fosse caduta di sopra».

Allora nelle famiglie si dialogava poco, non c’era quella comprensione che invece Matteo era riuscito ad avere per Peppino, a differenza di quanto non aveva voluto fare il padre, per il quale i comunisti erano delinquenti. Peppino, insomma, era cresciuto con una educazione nonviolenta. La prima reazione in questo senso la manifestò in occasione dell’assassinio di Cesare Manzella, avvenuto il 23 aprile 1963. Peppino aveva quindici anni e – ricorda Giovanni – fu molto impressionato dal fatto. Andò sul posto e disse a sua madre: «Ma che società è questa?». Crebbe più con l’uso della ragione che con l’istinto dell’abitudinarismo e della tradizione. E così venne il giorno della definitiva rottura col padre.

«Mio fratello – racconta Felicia – me lo mandava sempre per non farlo distaccare da sua madre. Io gli preparavo la pasta che gli piaceva, l’insalata. Allora da me veniva a mangiare uno zio di mio marito. Una sera Giuseppe venne più tardi. Gli dissi: “Perché più tardi?”. Dice: “Ieri sera sono andato a mangiare il pane cunsatu ( condito) al forno”. Arriva un signore e dalla finestra chiama Luigi: – “Vieni che ti devo parlare”. Avevo la tavola apparecchiata. Mio marito con calma va a sentire. Era il patriarca, don Masi Impastato. Quando torna è una furia, tira la tovaglia, butta tutto a terra. Che era successo? Don Masi lo avvertiva che Peppino aveva detto a un carabiniere dove si trovavano i prisicuti, i latitanti. Gli gridò: “Vattene, esci dal portone, io ti ammazzo, ti sparo” –. Sembrò gettargli la sentenza. Mio figlio uscì e non tornò più per molto tempo. Poi di nascosto da mio marito, veniva, gli davo da mangiare e se ne andava».

Ma episodi di questo genere se ne verificavano continuamente e stavano a dimostrare che l’ambiente mafioso tendeva a espellere un elemento estraneo. E tuttavia, al di là delle vicissitudini che lo conducevano a rom­pere col padre, Peppino era un giovane tutt’altro che anomalo o isolato. In questo il ’68, anche a Cinisi, giocava a suo favore. Il suo, infatti, è un conflitto generazionale, segna un più generale clima di insofferenza che investe trasversalmente molti giovani e li spinge a unirsi, fondare gruppi e movimenti, sganciarsi dalla secolare schiavitù paternalistica, dentro il guscio delle vecchie famiglie. Così, nel paese di don Tano, il ’68 ha il riflesso delle battaglie che Peppino e tanti altri come lui conducono in occasione della costruzione della terza pista dell’aeroporto di Punta Rai­si, ma anche di una elaborazione profonda, sofferta sul piano politico e sociale. Di un impegno in questa direzione era stato testimonianza, a Ci­nisi, il bollettino L’Idea, i cui giovani redattori ebbero, fin dall’inizio, parecchie traversie, fino a essere convocati in caserma e a subire delle de­nunce. Alla famiglia sono dedicati degli Appunti per un dibattito che Pep­pi­no, con Pino Manzella ed altri, ebbero a scrivere nei primi tempi di at­tività del circolo “Musica e cultura”. Vi si analizza l’evoluzione della famiglia nel tempo, si denunciano “la segregazione e l’isolamento della casa”, il “mito della realizzazione femminile tramite il maschio”, l’abbrutimento del lavoro domestico, le forme maschiliste sottese ai processi relazionali e comunicativi, la loro connessione col potere, ecc. Ma occorre dire che anche sul piano sociale si avvertono, qua e là, atteggiamenti nuovi, tendenti a rompere l’obsolescenza delle strutture tradizionali, i modelli familiocentrici del passato, e a determinare un’effervescenza originale, nuova, che fa da sfondo e lievito alle battaglie che già da qualche tempo avevano visto Peppino in prima fila. E certamente, tra queste, quelle che conduceva, solitariamente, Danilo Dolci nella Sicilia Occidentale.

Su don Luigi, poi, si esercitavano tutte le pressioni della resistenza al cambiamento di questo ambiente. Un suo fratello, ad esempio, detto Spu­tafuoco, lo sollecitava continuamente a buttarlo fuori, raccontandogli quello che gli passava per la testa, dicendogli che aveva dentro un comunista e uno sbirro. Felicia fu impedita persino della possibilità di dare qualche soldo al figlio. Contro queste situazioni lo zio Matteo, quando era in vita, non poteva fare nulla; quello era un mondo che gli era estraneo. Gli bastava prendersi cura del nipote, seguirlo negli studi, andare a parlare con i professori. Non era certo il padre a seguirlo. Neanche don Luigi poteva farci nulla, e se ne andò per un mese in America. Ma ai suoi parenti americani disse: «Prima di uccidere mio figlio, dovranno ammazzare me». Don Luigi morirà una sera mentre tornava a casa, a piedi, sulla statale che porta a Cinisi. Investito da una macchina. Qualcuno sospettò che vi si fosse buttato sotto, avendo intuito che per il figlio non ci fosse più nulla da fare. Ma mai nessuno ha saputo come sono andate veramente le cose.

Molti giornalisti si sono recati a Cinisi attirati dalla figura di Peppino Im­pastato.

«Ne sono venuti – dice Felicia – da tutte le parti, americani, tedeschi, francesi. Mi volevano in Francia…. ci sarei andata se fossi stata bene in salute. Ho una bronchite asmatica e da casa non mi posso muovere. Per mio figlio avrei fatto qualsiasi cosa».

La curiosità dei giornalisti è legata certamente alla consapevolezza della forza e del coraggio manifestati, nella vita e nella morte, da un giovane che, in tempi come quelli, quando usare la parola ‘mafia’, nelle piazze o nelle scuole, era un tabù, osava attaccare con estrema decisione quei potenti che assommavano in sé i caratteri della mafia e di un capitalismo selvaggio, primitivo; le degenerazioni della speculazione e quelle della ne­gazione del diritto. In questa battaglia egli era praticamente solo. Le sue uniche armi erano quelle della cultura, dell’ideologia anche.

Peppino leggeva molto. Ma non si fermava alla lettura. Costruiva sva­riati momenti di aggregazione. Tra di essi, il circolo “Musica e cultura”, che ebbe sede nel suo paese, in via Faro Pizzoli, 242, fu certamente il più significativo.

Si tratta del tentativo di esperire forme di organizzazione del sociale e dei fatti culturali, le cui attività prevalenti sono: il cineforum, le mostre-mercato itineranti, i murales, le rappresentazioni teatrali, nonché la costituzione di una biblioteca – come diceva lui – “decentralizzata”, da contrapporre a quelle centralizzate, ufficiali, dei detentori del potere culturale.

«Una biblioteca – spiegava – collettiva, nel senso che ogni proprietario che fa parte dell’organismo, tiene a casa propria i suoi libri e una copia degli elenchi (dei libri, dei bibliotecari, degli utenti). Ogni proprietario farebbe così da bibliotecario alla frazione della biblioteca che egli gestisce».

Si apriva, in tal modo, una “campagna di lettura e di studio” che nasceva per contrastare i processi di omologazione e di schiacciamento culturale già avvertiti da Pier Paolo Pasolini, e che a Cinisi, in quel circolo, trovavano forma organizzativa e substrato teorico. Spiegava Peppino:

«Il risveglio culturale e politico degli ultimi anni, il prorompere sulla scena della storia delle nuove generazioni e il loro assurgere a livelli sempre più alti di responsabilità sociali e culturali, la crisi della scuola come veicolo per la trasmissione dell’ideologia dominante e la sempre crescente aggressività mistificatrice dei mezzi di comunicazione di massa, ci pongono compiti e problemi nuovi che vanno affrontati e risolti sul terreno della massima apertura intellettuale e dell’informazione culturale. A questo scopo riteniamo sia importante – continuava – promuovere e sostenere ogni sorta di iniziativa in grado di coinvolgere strati sempre più ampi di giovani lavoratori e di studenti, e che si muova nella direzione di proporre contenuti e valori alternativi alla vecchia cultura idealistico-repressiva e all’ideologia consumistico-totalizzante affermatasi nell’ultimo de­cennio e con crescente sviluppo economico distorto e finalizzato al superfluo».

Seguivano tre regolamenti: per l’utente, per il “nucleo direttivo”, e per i bibliotecari, che descrivevano, con minuzia di particolari, le regole per il funzionamento del nuovo servizio culturale. Peppino, oltre ad averlo elaborato, vi prese parte direttamente come uno dei tanti bibliotecari mettendo a disposizione un primo elenco di 74 libri. C’è poco di Lenin e mancano del tutto Carlo Marx e Pasolini che tenne gelosamente per sé. Tra i testi che si occupavano della conoscenza del fenomeno mafioso, riscontriamo quelli di Michele Pantaleone e di Domenico Novacco, ma non quelli di Danilo Dolci, del quale non aveva condiviso il pacifismo inerme, fondato sui tempi lunghi di una “coscientizzazione” che non si co­struiva mediante l’azione di un gruppo, ma attraverso un percorso ‘maieutico’ che si sorreggeva più su una socratica dimensione duale, in­tersoggettiva e, talvolta, mistica della relazione, che non su un progetto politico collettivo. Vi erano, poi, le attività del cineforum. I films erano ac­curatamente selezionati, ed erano proiettati dopo una presentazione, curata con diligenza. Seguiva, alla fine, un dibattito. Dai ciclostilati del ’76, rileviamo “Uccellacci e uccellini” che Pasolini aveva girato nel ’66, as­sumendo come “base organica” Le ceneri di Gramsci e, dello stesso regista, “Il vangelo secondo Matteo”; “La confessione” di Costa Gravas; “Bron­te” di Florestano Vancini. Di Bibermann si proiettava “Il sale della terra”, un film sul ruolo delle donne in uno sciopero di minatori; di Vit­torio De Sica, “Sciuscià”, che rappresentava la storia di due bambini che, coinvolti in una rapina, finiscono in riformatorio, e qui, nell’atmosfera pesante del carcere, attorniati da piccoli delinquenti, angosciati dai guardiani, perdono la loro umanità. Problematiche della microcriminalità infantile, dunque. Il film di Bibermann, invece, faceva parte di una serie di documentari-inchiesta sulla condizione femminile, e serviva ad introdurre un dibattito con la presenza delle rappresentanti locali del collettivo femminista. Ma, dalle locandine redatte a mano che abbiamo visionato e che recano ancora la marca da bollo per l’affissione nei pubblici esercizi, registriamo la proiezione, in quell’anno, di “Giulietta degli spiriti” e della “Strada” di Fellini; di “Achtung Banditi” di Carlo Lizzani; di “Bian­co e nero” di Paolo Pietrangeli, e via dicendo. Si trattava di pellicole fornite dall’ARCI-UISP o dalle Edizioni Paoline, che venivano proiettate a un pubblico desideroso di rompere le angustie di un’amministrazione lo­cale negata a qualsiasi forma di cambiamento e fortemente collusa con la mafia, con i disvalori da essa rappresentati. Il collettivo femminista era nato il 19 giugno 1976, all’interno del circolo, per iniziativa di Maria Ga­glio, Francesca Randazzo, Patrizia Palazzolo, Maria Concetta Biundo, Fanny Vitale e Margherita Galati, che tennero la prima riunione aperta nei locali del corso Umberto, 232. Attorno al gruppo graviteranno molte ragazze di Cinisi che, rompendo un’antica tradizione di casalinghità, e sfidando un ambiente chiuso e restìo alle innovazioni, si riuniranno per parlare di lavoro, gelosia, amore, giovani, genitori, sesso, e persino, di autoerotismo. Materie tutte di cui è testimonianza fedele un diario inedito che ha per titolo: “Le ragazze di Musica e cultura”. In realtà è un gruppo di autocoscienza, analogo a molti altri gruppi e collettivi sorti in Italia in questo periodo. Nella pagina del 16 luglio leggiamo:

«È una sorta di discussione relativa al termine collettivo femminista usato da Fanny. Qualcuna ha detto che femminile e femminista sono la stessa cosa, ma molte siamo state d’accordo nel dire che il termine femminista indica un programma di lotta per la liberazione delle donne».

E così, quando Lucia, di 14 anni, figlia di un pescatore di Terrasini viene violentata, queste ragazze che mai prima erano uscite di casa, pre­pa­rano un documento di denuncia, e lo stesso fanno quando vengono a sapere che Giuseppina di 15 anni di Cinisi ha subito la stessa sorte. Ma non si limitano a questo: aprono una sottoscrizione e sostengono le spese processuali per mandare in galera gli stupratori. Tale azione sociale si esercitava in un paese che non forniva alcuno spazio alla riflessione, al tempo libero e all’esercizio delle attività culturali, e tendeva a creare un varco al monolitismo della cultura dominante fondata sull’omertà e sul silenzio. E sull’onda di tale azione, al circolo aderirà anche il gruppo teatrale OM di Terrasini, composto da una ventina di ragazzi. Il jazz e il folk sono, tra le diverse attività, due generi musicali privilegiati in quanto – scrive Peppino –«in entrambi i casi essi sono sorti dalle condizioni di vita, di sfruttamento e di lavoro del popolo; sono due modi di far musica e cantare la cui evoluzione si identifica, in modi e tempi differenziati, con l’evoluzione sociale e antropologica di grandi masse di subalterni, interpretandone ora la disperazione, ora le speranze, ora la gioia e sempre l’aspirazione alla libertà».

Nel manifesto con cui Franco Scaldati presentava al circolo lo spettacolo Il pozzo dei pazzi, stava scritta questa citazione di un pensiero di Pa­scal: “Gli uomini sono così necessariamente folli che il non esserlo equivarrebbe ad esserlo secondo altre forme di follia”. Tanto più in quel mo­mento, e per Peppino.

Per questo l’opera di Giuseppe Impastato, come quella, pur molto di­versa e divergente, di Danilo Dolci (che da trent’anni operava in un territorio limitrofo), è essenzialmente pedagogica, punta sull’uomo, e sulla modificazione graduale della sua accettazione acritica dei modelli impliciti del potere. Lo sforzo è diretto anche ai bambini, e ad essi egli si rivolgeva, a proposito, ad esempio, della “mostra-mercato itinerante d’arte”, dell’allestimento dei murales, o in occasione di attività grafico-pittoriche programmate.

Peppino lesse il Capitale di Marx; Salvo conserva ancora una copia del Mito di Sisifo di Camus, sottolineata e annotata. Fece il suo primo comizio a sedici anni, dimostrando di sapere conciliare politica e studio. Infatti a scuola andava bene. Aveva una intelligenza al di sopra della norma. Oggi sfogliando le pagine dei libri che leggeva e che gelosamente suo fratello Giovanni conserva in biblioteca, così come Peppino la lasciò – quanto prima sarà aperta al pubblico – possiamo constatare, quali siano stati i suoi veri padri spirituali, le sue affinità elettive. Non casuali furono gli incontri prima, negli anni ’60, con Dolci, ai tempi delle sue battaglie per la costruzione della diga sullo Jato, della marcia per la pace, delle prime denunce antimafia, della costruzione del Centro Educativo di Mirto e, dopo, con Mauro Rostagno che aveva conosciuto tra il ’73 e il ’76 a Pa­lermo. Scrive Claudio Fava:

«Peppino è uno spirito irrequieto ma ha bisogno di uscire dalla politica dell’emotività, dall’improvvisazione facile, dalla semplice provocazione. Cerca il gruppo, che avrà via via nomi differenti ma resterà sempre un gruppo, un luogo conosciuto, vissuto. Il PSIUP, la Lega dei marxisti-leninisti, poi il circolo Che Guevara, i contadini di Punta Raisi, infine Lotta continua. Non è tanto un percorso ideologico a sinistra – puntualizza – quanto una ricerca di strumenti, di parole nuove. L’ansia di una radicalità che nel vecchio Partito Comunista sarebbe stata imbrigliata, soffocata dalla prudenza, disciplinata nelle strategie».

In questa sua ricerca non potevano mancare i testi classici del socialismo, certamente rari, allora, in quella che era, prima dell’ascesa dei corleonesi, la capitale della mafia. Qui sta la singolarità di Peppino: nell’avvertire, all’estrema periferia dello Stato, e nel cuore del potere della borghesia mafiosa, il bisogno di modalità e tempi nuovi nella costruzione del­la democrazia, in una situazione, di cui egli era profondamente consapevole, che richiedeva una adeguata elaborazione teorica e un parallelo processo politico e sociale. Le pagine di Che fare? di Lenin sono quasi solcate come un terreno lavorato con l’aratro; segnate in rosso e bleu. Di esse certamente gli erano rimaste impresse quelle che invitavano ad evitare l’assorbimento nel semplice “lavoro locale”, che sottolineavano l’importanza di tenere in considerazione un “centro di gravità” proteso verso “il lavoro nazionale”, perché ciò avrebbe contribuito alla continuità dell’agitazione locale, dandole un senso che non poteva concludersi con l’esaurirsi di una singola azione sociale o politica, di una singola rivendicazione. Attraverso la lettura di Lenin, ma anche di Engels, ad esempio, della Dialettica della natura, nell’edizione che porta la prefazione di Lucio Lombardo Radice, o delle Lettere 1915-1918 di Liebknecht e Rosa Lu­xemburg, o dell’Accumulazione del capitale di quest’ultima, Peppino elaborava il primo laboratorio di politica antimafia che la sinistra abbia sperimentato in Italia; capiva, cioè, che occorreva investire tutte le classi della popolazione con un preciso progetto teorico che desse senso alla propaganda e alla organizzazione, per sovvertire le forme della convivenza sociale fondate sullo sfruttamento, e cioè su un dominio che non era ca­pi­talistico nel senso moderno del termine, bensì mafioso, connotato di una specificità del modo di essere dello Stato e della stessa borghesia meridionale. Ma tra le sue letture più significative, ancora, ricordiamo L’e­logio della follia di Erasmo da Rotterdam, Le confessioni e La vita felice di Sant’Agostino, testi di storia delle idee e dei movimenti libertari, come quello di Woodcock sull’Anarchia, libri di protagonisti del movimento studentesco del ’68, e poi le opere di Verga, Sciascia, Pirandello, e, so­prattutto, Pasolini. Della Vita felice, in particolare, aveva segnato, con maggiore insistenza, il seguente pensiero:

«A me, dunque, sembra che gli uomini in rotta verso la filosofia si debbano dividere in tre classi. La prima è di coloro i quali, raggiunta l’età della ragione, con poco sforzo e una leggiera remata, scappano via dall’ambiente e si mettono in quello stato di tranquillità, donde innalzano il gran pavese di una qualsiasi vittoria ottenuta, per farlo vedere a quanti possono, in segno di jattanza, per invitare gli altri ad unirsi a loro».

 Non era la categoria dei filosofi e dei tanti politici alla quale riteneva di appartenere Peppino.

 

Giuseppe Casarrubea

 Questo studio è stato pubblicato nella prima e nella seconda edizione del libro di Salvo Vitale “Nel cuore dei coralli” e costituisce una preziosa analisi e uno studio attento della vita di Peppino Impastato. Dopo la recente scomparsa del grande storico, è rimasto un importante documento con il quale  Casarrubea dimostra di approcciarsi alla storia e di sviscerarne i contenuti con l’analisi dei documenti.

 Nella Foto: Giuseppe Casarrubea a Portella della Ginestra nel 2006

 

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