Orfeo e Euridice: per una rilettura del mito (Salvo Vitale)

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Orfeo: Qualcuno lo dice figlio di Eagro, re della Tracia, qualche altro di Apollo: nessun dubbio sulla madre Calliope, “dalla bella voce” musa della poesia epica,  ed essendo le muse una sorta di harem di Apollo, ci sono pochi dubbi che il dio della musica, raffigurato con la lira in mano, possa essere stato padre di Orfeo. E Apollo gli insegnò a suonare la lira, alla quale Orfeo aggiunse altre due corde, per sviluppare armonie più inebrianti e più complesse. Il suo suono incantava tutto quello che viveva attorno a lui, animali, alberi, ninfe, divinità, la sua poesia era in grado di creare, attraverso le parole, incantamenti, fughe disperse nel mondo della fantasia, laghi sotterranei nelle caverne dei sentimenti. Persino l’acqua impetuosa dei torrenti “obliosa di proseguire il cammino, perdeva il suo impeto” (Seneca)  La sua fama era tale che Giasone lo volle con sè, assieme agli Argonauti ed Orfeo seppe far valere la sua abilità quando con la lira e con la sua voce riuscì a prevalere sul canto, pur dolcissimo, delle Sirene. In quel viaggio persino il rude Eracle, amava sentirlo suonare, mentre si trastullava eroticamente con il “suo ragazzo” Ila.  Qualcuno lo ha definito il primo cantautore della storia, qualche altro un musico vagante,  pieno della sua musica e del suo amore per Euridice, la “giustissima”, figlia di Nereo e di Doride, che divenne la sua sposa. Era bellissima. Tra le valli attraversate dai fiumi e i boschi montani  Orfeo riusciva a trarre il massimo dal suo strumento solo a guardarla. La sua bellezza non sfuggì ad Aristeo, “il migliore”, anche lui figlio di Apollo. Un giorno che la ragazza stava facendo il bagno nuda, Aristeo la vide e non seppe più contenersi: si buttò nell’acqua per raggiungerla a nuoto, ma Euridice cercò di svincolarsi e di fuggire. Dicono che durante la sua fuga fu morsa da un serpente e morì.

Sulla morte di Euridice si possono formulare alcune ipotesi:

Fu realmente morsa da un serpente, mentre correva per sfuggire ad Aristeo, ma è estremamente improbabile che un serpente dia un morso a una persona in fuga: più facile che si nasconda al rumore dei passi;

Nella valenza sessuale del mito il serpente ha un preciso significato ed è spontaneo pensare che il “serpente” di Aristeo avesse dato ad Euridice un piacere così intenso da causarne la morte, più o meno come l’epifania di Zeus la causò a Semele. Uno spiraglio di ciò si trova in Poliziano:

“Costui amò con sì sfrenato ardore

Euridice, che moglie fu d’Orfeo,

che seguendola un giorno per amore

fu cagion del suo caso acerbo e reo”

Aristeo le usò violenza e poi la uccise. Perché avrebbe dovuto farlo? Forse per paura che la donna rivelasse tutto al marito;

Euridice si diede la morte non sapendo come nascondere a Orfeo che, al di là dei celestiali orgasmi che egli era capace di darle, c’era stato qualcosa di materiale, di concreto, di ruvido, di violento, che le aveva squarciato con un lampo un orizzonte precluso e desiderato.

Di fatto Orfeo ne rimase distrutto: deciso ad andare sino in fondo, armato solo del suo strumento, la lira, cercò le vie profonde che portavano nel regno dei morti. Il suo strumento e il canto del suo dolore furono capaci di incantare il burbero Caronte, che lo traghettò sull’altra sponda dello Stige, il terribile cane Cerbero, che si accucciò ammansito, e tutti gli altri giudici e le altre anime che tentavano di ghermirlo. Giunto al cospetto di Ade e Persefone, pur senza guardarli in viso, continuò a suonare senza paura, ad evocare in Ade il sentimento provato ogni volta che Persefone si allontanava da lui per andare sulla terra e in Persefone il piacere di abbracciare la madre e reincontrare la luce e la vita. Si commossero anche i signori dell’Oltretomba e acconsentirono a che egli si riprendesse Euridice, ma con la sola condizione che non si girasse a guardarla prima che fossero entrambi fuori dalla porta dell’Ade. Il vate Tiresia ebbe il tempo di dirgli: “Stai attento alla troppa luce”. Il viaggio sembrò interminabile. Orfeo bruciava dalla voglia di abbracciare Euridice, credeva di sentire la sua voce che lo invitava ad abbracciarlo. Sul fondo dell’aspro sentiero baluginava appena   una fioca luce, il segnale che la porta era vicina, che presto tutto sarebbe finito. Quando Orfeo, abbagliato, frastornato, ansimante, credette di essere fuori,  si girò, ma Euridice aveva una gamba ancora nell’ombra, ancora zoppicante per il morso del serpente, e di colpò svanì per sempre, risucchiata dal destino a cui a nessun essere umano è consentito sfuggire. Qualche maligno pensiero lascerebbe supporre che non si era del tutto liberata dal ricordo dell’esperienza con Aristeo.

Un po’ diversa l’interpretazione di Roberto Vecchioni, sembra ispirata da Gesualdo Bufalino, che immagina che Orfeo si sia voltato volontariamente per dare un addio al passato che può continuare a vivere nella memoria, ma non nella realtà:

“E mi volterò (le carezze sue di ieri)

Mi volterò (non saranno mai più quelle)

Mi volterò (e nel mondo, su, là fuori)

Mi volterò (s’intravedono le stelle)

Mi volterò perché l’ho visto il gelo

Che le ha preso la vita

E io, io adesso, nessun altro

Dico che è finita”

E mentre l’Orfeo di Vecchioni pensa che “ragazze sognanti mi aspettano”, quello di Ovidio se ne andò sul monte Rodope, da dove continuò a cantare il suo dolore ovunque e rifiutò di avere qualsiasi rapporto con altre donne, limitandosi ad insegnare a suonare la lira ai giovinetti:

“Ai popoli di Tracia fu d’esempio

Nel deviare l’amor verso i fanciulli

Cogliendone, prima della pubertà

La fulgida primavera e i primi fiori”

(Metamorfosi X – 83)

Ci provarono a scuoterlo anche le Menadi, sacerdotesse di Dioniso, che rifiutate e offese lo uccisero, lo fecero a pezzi e ne gettarono la testa  nel fiume Ebro. Quella testa  continuò ad invocare il nome di Euridice e a cantare il suo dolce lamento  sino a quando le Muse non raccolsero tutti i pezzi del corpo, dandogli sepoltura ai piedi del monte Olimpo, in un luogo dove ancora oggi il canto degli usignoli è di una dolcezza e una soavità divina.

Zeus per eternarne il ricordo creò la costellazione della lira che al centro lascia intravedere la testa di Orfeo che continua a cantare e a diffondere la sua celestiale armonia in tutto l’universo.

Dal libro di Salvo Vitale: “Tiresia il veggente” edizioni Billeci 2022

Illustrazione: “Orfeo e Euridice” di Catherine Adelaide Spurkes

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