Ma non era il sesso debole?

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Pubblico volentieri questa vecchia riflessione del collega Stefano Avanzini utile a far fuori una serie di luoghi comuni, secondo cui “gli uomini non piangono”, sono il sesso forte ecc.. Faccio solo presente che la frase di Felicia sulla sua vita trascorsa assieme al marito Luigi Impastato, è stata da lei detta a me, che l’ho pubblicato per la prima volta nel libro “Nel cuore dei coralli”, (ed. Rubbettino , maggio n1996, da dove Luciano Mirone l’ha rilevata. Non è comunque un problema.(S.V.)

 

Dicono (scil. gli uomini) che noi (scil. le donne) viviamo una vita priva di rischi in casa; e loro combattono in guerra.

Che sciocchezza: preferirei mille volte restare salda in piedi con lo scudo piuttosto che partorire una sola volta.”

(Euripide, Medea, vv. 248-251)

 

Così recitava l’attore (paradossalmente, un maschio: nell’Atene di Clistene e Pericle gli attori erano solo uomini, e interpretavano pure le parti femminili, come ancora ai tempi di Shakespeare) al pubblico di maschi ateniesi dalle scene della Medea di Euripide, a ricordare loro quella che la biologia di oggi ha assodato come una verità incontrovertibile: è la femmina il sesso forte della specie, e nulla è biologicamente rischioso – oltreché doloroso al di là di ogni immaginazione maschile – quanto il parto, che pure è la condizione di esistenza e sopravvivenza non del singolo individuo, ma della specie. E quanto questo sia vero ancora oggi, nel tempo dei parti à go-go, degli epidurali, dei parti dolci, in acqua, dei parti insomma iperassistiti del Primo Mondo, lo certifica la scienza medica, ma quanto era infinitamente più vero al tempo di Medea o ancora al tempi di Concetta, quando “le donne allora mica partorivano in ospedale, ci stavano le altre donne della famiglia che ti aiutavano, quando andava proprio di lusso ci stava una levatrice, sennò, le contadine lo facevano pure da sole, nei campi, cosa credi?” (p. 23).

Eppure, si sente spesso dire che “la fragilità è femmina”, volendo intendere che la forza, il coraggio – non a caso la parola ha un compagno inseparabile nell’aggettivo ‘virile’, dal latino vir ‘maschio adulto’ – sono prerogativa esclusiva del maschio. Quanto questo sia vero, al di là di gags, barzellette o vignette che mostrano prossimi neopadri fumare nervosamente sull’orlo del collasso nervoso fuori dalla sala parto, ce lo insegnano le pagine di Rossana Campo (pp. 20-25), dove ci racconta prima del sogno del padre e poi della sua fuga a cavallo della jeep d’ordinanza al momento della nascita della figlia primogenita, una figlia desiderata con tutta l’anima e la passione di uomo e marito innamorato, “concepita su un tavolo da biliardo”.

Ma chi l’ha detto che la fragilità sia sintomo di mancanza di forza e di coraggio, e non piuttosto di sensibilità, di quella sensibilità che lo psicologo chiama ‘empatia’, vale a dire la capacità – perché di capacità si tratta – di sentire come propri il dolore, la gioia, i sentimenti altrui, buoni o cattivi che siano? E non sia invece che la capacità di ‘empatia’ è l’unica, vera forma di coraggio che valga la pena di avere, per il bene proprio, di chi ci circonda e in ultima analisi per il bene biologico della specie?

E allora, vorremo davvero dire che Renato, che bianco come un cencio e in preda alla sudarella – il sudore freddo, perché no, della paura – inforca la jeep e se ne scappa al mare, è un vigliacco? O non è forse giusto dire che lui ha il coraggio dell’empatia, più di un padre che, da bravo padre responsabile, se ne resta imperturbato fuori la sala parto, fumando tranquillo la sua sigaretta, giusto per mostrare quella giusta dose di nervosismo e tensione che tutti si attendono da un padre, responsabile, sì, ma non cacasotto, e magari pensa che da lì a mezz’ora, accidenti ai bambini che nascono quando gli tira invece che quando serve, c’è la partita della Nazionale e lui finirà per perdersela.

Ed ecco la domanda: quale padre preferiresti, tra i due?

E dopo la domanda, la coda: quanti uomini non sanno cosa si perdono, negandosi di piangere di paura e di emozione insieme in un’occasione come questa, invece di fumarsi la maschia sigaretta? E quante altre sono, o sarebbero, le occasioni perdute di pianto, per un uomo che si preoccupi di mostrarsi all’altezza presunta del suo sesso?

E quanto questa retorica del ‘maschio’ tutto d’un pezzo, il maschio che “non deve chiedere mai”, come recitava uno stupidissimo spot di qualche decennio fa, virilmente impermeabile a pianto o carezze e consimili femminei atteggiamenti, ne faccia un uomo – nel senso in cui il tedesco direbbe ein Mensch – dimezzato, frutto bacato e infelice sans le savoir di una volontaria quanto inconscia autocastrazione, ce lo dicono le parole di Felicia Bartolotta, madre di Peppino Impastato, ucciso a trent’anni da quella mafia che dalle frequenze di Radio Aut chiamava “una montagna di merda”, a proposito del padre di Peppino, uomo d’onore e di mafia, ‘impastato’ di quella sciocca e ridicola retorica di cui sopra: “Un martirio quello che ho passato. Quando lo sentivo arrivare mi pisciavo addosso,” – dal ridere, verrebbe fatto di aggiungere, da fuori le cose – “mai una parola dolce, mai uno svago, mai una festa, mai una lira, teneva tutto in mano, mi faceva uscire solo per andare a trovare il boss Tano Badalamenti e parlare con sua moglie” (da L. Mirone, Gli insabbiati Storie di giornalisti uccisi dalla mafia e sepolti dall’indifferenza, [Castelvecchi], Roma 2008, p. 185). E ce lo dice la storia del suo rapporto mancato con un figlio che, cresciuto dal padre ai valori di uomo di mafia, a quindici anni, davanti al cadavere del fino ad allora amatissimo zio, Cesare Manzella, capomafia di Cinisi, ucciso da un’autobomba nella guerra di mafia scatenata dalle nuove cosche emergenti, torna a casa disgustato e dice: “«Se questa è la mafia, dedicherò tutta la vita a combatterla»” (ibidem, p. 183). E quando il figlio, in preda agli astratti ma nel suo caso concretissimi furori del Sessantotto, in un comizio attacca Tano ‘Seduto’ Badalamenti, Luigi Impastato si arrabbia e dopo l’ennesimo scontro gli dice: “«Esci da questa casa e non metterci più piede»” (ibidem, p. 192)), e Peppino vivrà per mesi una vita randagia, “con i pochi soldi che di nascosto gli davamo io [il fratello minore Giovanni, n.d.a.] (che già lavoravo nel negozio), mia madre e mia zia. Pochi spiccioli che gli consentirono di affittare una stanza.” (ibidem, p. 193), sostenuto dalla madre che, di nuovo con le sue parole: “Mio figlio veniva, gli preparavo il bagno, sempre di nascosto da lui. Gli facevo: «Sbrigati, Giuseppe». Si faceva il bagno, si metteva i vestiti puliti e se ne andava. Veniva a mangiare da me, sempre di nascosto. Gli apparecchiavo la tavola, gli mettevo la pasta, la carne, la frutta. «Sbrigati, se per caso viene tuo padre». Mangiava e se ne andava” (ibidem, p. 193).

Ma quando nel 1977 Luigi Impastato viene a sapere che don Tano ha deciso che Peppino ha tirato troppo la corda e lo ha condannato a morte, quella morte che arriverà comunque nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978, “fa un misterioso viaggio negli Stati Uniti, lui che non si muove da Cinisi da tanti anni. Si reca a New Orleans, a New York, a Los Angeles. Ufficialmente per far visita a dei parenti. In realtà per un motivo ben preciso. «Mio padre [è di nuovo Giovanni che parla, n.d.a.] andò alla ricerca di qualcuno in grado di convincere Badalamenti a desistere. Non sappiamo chi incontrò, ma a una nostra parente residente in America che gli chiese ‘ma è vero che vogliono uccidere Peppino?’, lui rispose: ‘Prima di uccidere lui, devono uccidere me’»” (ibidem, p. 198).

Parole materne, depurate di quella sciocca virilità ammantata di falso coraggio che ha paura di mostrare i propri sentimenti, da parte di un uomo che finalmente, di fronte a ciò che veramente conta – la vita di un figlio – accetta finalmente di essere ein Mensch, senza soffocare dentro di sé quella componente ‘femminile’ senza la quale un uomo è un ‘mezzo uomo’, allo stesso modo che senza una componente ‘maschile’ una donna è una ‘mezza donna’.

E forse, chissà, quell’automobile che una notte lo investe uccidendolo sul colpo, gli risparmia, a lui, da vir finalmente divenuto ein Mensch, l’insostenibile dolore di vedere i brandelli del figlio, straziato dalla carica di tritolo messagli addosso dopo averlo sequestrato ed ucciso per far figurare la sua morte come un incidente nel mancato compimento di un atto terroristico.

Ma perché un uomo, per mostrare di essere vir, deve negarsi di essere ein Mensch, aspettando magari, con l’altrettanto sospirata pensione, che gli anni ed i figli ne facciano un nonno felicemente prodigo coi nipotini di pianti e carezze?

prof. Stefano Avanzini

 

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