Il delitto di lesa maestà
Tutto parte da un assunto semplice. Ognuno di noi è un centro, il polo di riferimento di se stesso, il sole copernicano attorno a cui ruota tutto. Il rapporto con il resto del mondo, si tratti di cose o di persone, può essere di funzionalità, nel senso che tutto deve tornare utile al proprio essere, o di interazione, cioè d’incontro con l’altro o l’altra cosa, con cui si crea un rapporto paritetico di interscambio. Si tratta di “egoità” che assume la forma dell’egoismo, una di quelle deformazioni di alcuni aspetti del proprio modo di essere che, particolarmente in età avanzata, diventa patologica. Il proprio io diventa ciò con cui paragonare tutto, cercare il confronto, la connessione con ciò di cui sta parlando l’altro, personalizzare l’esperienza altrui e comunque uscirne in una condizione di superiorità o di pariteticità, in rapporto all’equilibrio interno posseduto, alle caratteristiche della personalità. Quando qualcosa o qualcuno si permette di rompere tale equilibrio, di avanzare considerazioni critiche, rilievi, giudizi divergenti rispetto a tale “perfezione” del proprio essere, costui si rende colpevole del delitto di lesa maestà, con l’assunzione di una serie di atteggiamenti di risposta, da parte del soggetto “offeso”, che vanno dall’astio, al rancore, all’allontanamento, , alla fine dell’amicizia, all’odio, all’insulto. Spesso non c’è neanche bisogno di un giudizio divergente: basta essere concorrenziali, fare attività, conseguire risultati che in qualche modo creino una situazione di palese diversità, se non di “superiorità” intellettiva, culturale, fisica, economica, rispetto al soggetto con cui ci si relaziona: per preservare la propria autostima si creano alterazioni dei fatti, ricostruzioni a posteriori e con altri parametri di giudizio, di ciò che è stato e che viene rivalutato negativamente, si cercano consensi tra coloro che, in qualche modo, con la loro condivisione possono supportare l’atteggiamento di accusa e di valutazione critica di chi è stato giudicato colpevole di lesa maestà. La considerazione evangelica, “ama il prossimo tuo come te stesso” che non è un “comandamento nuovo”, perchè espressa da altri pensatori prima di Cristo, deforma l’amore verso se stessi in una posizione di privilegio rispetto all’amore per gli altri che, quando esiste o resiste, viene riservato a pochi altri rispetto a cui c’è una qualche “prossimità”, o qualche condivisione, senza che ci si preoccupi nemmeno di impostare la relazione nel rispetto reciproco della diversità, dell’identità altrui. Una deformata interpretazione dell'”Ubermensch”, di Nietzsche, dove “uber”, che significa “oltre”, è stato tradotto infelicemente in “super”, ha creato generazioni di superuomini, di emerite teste di cazzo piene di se stessi, assise sul trono del proprio io, o, per dirla in siciliano, “assittati n’a cartedda” , sedute su una cesta che non trattiene nulla, neanche la propria imbecillità. Il vero stupido è quello che ritiene che tutti sono stupidi tranne che se stesso. E’ rispetto a ciò che bisogna andare “oltre”, riconquistare il valore perso del gioco, della socializzazione, della solidarietà, del confronto critico che diventi “costruzione”. Altrimenti continueremo a dividerci in stupidi e furbi, in pastori e pecore, in monarchi e sudditi e a sentire la propria “maestà” lesa e offesa da tutto ciò che non è omogeneo al proprio modo di essere.