Contro la mafia leggiamo Sciascia (Antonio Ciniglio)

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Ripropongo volentieri questo articolo di Antonio Ciniglio, , apparso due giorni fa su “Il Riformista”, che bene individua la sciasciana linea di demarcazione tra i cosiddetti “talebani dell’antimafia”  e coloro che sostengono che la mafia si batte utilizzando le norme dello “stato di diritto” (S.V.)

 

Quando scrisse Il giorno della civetta negli anni in cui in Sicilia, per tanti, la mafia non esisteva, lo accusarono di vilipendere l’immagine del Mezzogiorno. Poi i negazionisti di allora ascesero a una casta superiore, divenendo “professionisti dell’antimafia”, e si chiosò che Leonardo Sciascia da Racalmuto fosse divenuto “mafioso”: affascinato, stregato dalla mafia. Accorsero tutti però ai suoi funerali nel tentativo di integrarlo forse nella “ufficialità del regime”.

Tutti, tranne Marco Pannella che vent’anni prima gli aveva detto: «Siamo noi radicali ad aderire alla sua politica».
Per Leonardo Sciascia, il figlio di Voltaire che non amava la tensione dei cortei, delle sirene, la terribilità, «la mafia si lotta con il diritto». Serve lo stato della ragione, la nonviolenza, il coraggio di scacciare qualsiasi forma di manicheismo. Chissà cosa avrebbe detto se, in viaggio con Nessuno tocchi Caino nelle regioni del Sud, avesse incontrato Pietro Cavallotti e le vittime delle misure di prevenzione che distruggono il sistema economico, sacrificando posti di lavoro, in territori già falcidiati dalla disoccupazione, o toccato con mano intere comunità amputate sulla base del semplice sospetto di mafia! Avrebbe sostenuto forse quello che sosteneva sempre e, per il quale, noi lo sentiamo eternamente “compresente” ai Laboratori di “Spes contra Spem” di Opera, Rebibbia, Voghera, Parma, Secondigliano: si abbandona la mafia se si approda a nuovi livelli di coscienza, non se si viene annientati dal diritto penale del nemico.

Sciascia capì più di ogni altro il fenomeno mafioso, intuì che «il fine non giustifica i mezzi» ma che i mezzi prefigurano i fini, che un armamentario anti-mafioso bellico, marziale, diventi solo foriero di morte e disperazione. Comprese la mafia come la comprese Paolo Borsellino: i due si abbracciarono e sorrisero, uniti da una comune “filia”, appartenenza allo stesso sentire, mentre il sistema dell’informazione li voleva contrapposti e nemici. Dopo Aldo Moro, oggi è il turno di Leonardo Sciascia, un altro “testimonial” della campagna “Compresenza” che Ambrogio e Niccolò Crespi hanno realizzato per Nessuno tocchi Caino. Seguiranno nei prossimi giorni Marco Pannella e Mariateresa Di Lascia. I personaggi di questi spot sono tutti morti che non sono morti, sono ancora vivi, compresenti accanto a noi.

Questa campagna è un’occasione straordinaria per far riflettere il nostro Paese. Non è esercizio abusivo della memoria, ad esempio, appendersi la mostrina dell’intellettuale siciliano, battendosi il petto. È continuare a far parlare la sua voce, credere che la giustizia non si specchi mai nella idea luciferina della “società dei giusti”, della igienizzazione e sterilizzazione della società, che le questioni sociali non possano esser mai ridotte a questioni di ordine pubblico.
Per lottare la mafia serve il Diritto e, se eserciti invochiamo, per dirla con Gesualdo Bufalino, gli unici degni di nota sono «gli eserciti di maestri elementari». Soltanto uscendo da una condizione di perenne emergenza, abbandonando i ferri vecchi della “terribilità” (dal 416 bis al 4 bis, al 41 bis e a tutti gli altri articoli bis che sono spesso sinonimi di recrudescenza penale e penitenziaria), le presunzioni iuris et de iure, assolute e incontestabili, sarà possibile sciascianamente «tirare il giusto senso»: la vertigine interiore delle cose e la capacità di avere una direzione di marcia.
Oggi rileggere Sciascia, un intellettuale “dalle parti degli infedeli” senza chiese, senza principi, significa capire che «la democrazia ha in mano, nella lotta alla mafia, lo strumento che la tirannia non ebbe mai: il diritto, la legge uguale per tutti, la bilancia della giustizia». La dittatura dell’anti, i pennacchi e le fanfare, ci consegnano invece un mondo che, a furia di combattere la mafia, finisce per somigliare a essa.

La campagna “Compresenza” è un viaggio nella memoria: quella saudade intraducibile che è speranza nel futuro. È un sentimento che ci conduce nei territori del nostro Paese, non per occuparli come i colonialisti, ma per liberarli, per liberarci insieme e salpare nuovamente con tutti coloro i quali credono che lo Stato di Diritto sia la più grande invenzione dei tempi moderni. Sciascia è ancora lì, forse su uno scoglio affacciato sul mar Jonio o immerso tra i vitigni e i fiori di zagara dell’olismo siciliano. Noi di Nessuno tocchi Caino, ci sentiamo un po’ come quando Marco Pannella, quarant’anni fa, digitò il numero della casa editrice Sellerio, annunciando di voler parlare urgentemente con Sciascia: «Siamo noi ad aderire al suo programma».

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