25 anni senza Faber

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L’11 gennaio del 1999 moriva Fabrizio De Andrè, uno dei più grandi, se non il più grande cantautore italiano. Nato nel 1940 a  Genova visse le sue prime esperienze musicali assieme a Luigi Tenco, a Gino Paoli e ad altri artisti della Genova degli anni 60: sin dalle sue prime incisioni cercò di provincializzare la musica italiana accostandosi al genere musicale di grandi autori come Jacques Brel, Leonard Cohen, Georges Brassens e Bob Dylan. E’ stato il primo in Italia a dare alla canzone contenuti nuovi, rispetto a quelli tradizionali, dimostrando come attraverso la canzone si potevano anche raccontare storie sino a quel momento riservate agli scrittori e ai poeti. E invero tutta la produzione di De Andrè è un grande affresco poetico dell’esistenza umana attraverso storie di suicidi, puttane, drogati, impiccati, ubriaconi, fannulloni, cioè di quel mondo “dove il sole del buon dio non ha i suoi raggi”, come egli stesso dice nella “Citta vecchia” : alcuni brani, come “Il Testamento”, la “Ballata del Michè”, “La ballata dell’amore perduto”, “Bocca di rosa”, “Via del campo”, “Suzanne”,  “Don Raffaè”  ci mettono a contatto con questo mondo di vizi privati e pubbliche virtù, in cui vengono passate in rassegna le perversioni e il perbenismo di una borghesia  dove galleggiano “banchieri, pizzicagnoli, notai, coi ventri obesi e le mani sudate, coi cuori a forma di salvadanai” di cui De Andrè viviseziona tutto il marciume e la voglia, costantemente castrata, di voler volare altrove, ma di non esserne capaci.

Nella sua produzione più matura Fabrizio De Andrè passa ad affrontare temi più impegnativi, come quelli della “Buona Novella”, ispirata ai Vangeli apocrifi, con canzoni di altissima religiosità,  come quelli della raccolta “Non al denaro, non all’amore né al cielo, ispirati all’”Antologia di Spoon River” capolavoro poetico di Edgard Lee Masters, dove la vita è ripercorsa dall’aldilà, con l’occhio disincantato di chi l’ha vissuta, o come il tema della contestazione giovanile del ’68, rivissuta attraverso la raccolta “Storia di un impiegato”. Il titolo dell’ultima antologia di De Andrè, “Mi innamoravo di Tutto”, può forse indicare meglio di ogni altra definizione la personalità complessa, “Come un’anomalia”, ( per dirla col titolo di una sua canzone), di questo artista e poeta che ha lasciato un’impronta indelebile in tutti quelli che ne hanno seguito l’esperienza musicale. Un ricordo particolare va all’album  “Tutti morimmo a stento” e al primo dei suoi brani, il “Cantico dei drogati”, scritto con la collaborazione di Saverio Mannerini. Il testo  va ben oltre la condizione del drogato o del dipendente dall’alcool, come capitò di essere a Fabrizio in alcuni momenti della sua vita: “Io mi compiacevo di bere, anche perché grazie all’alcool la fantasia viaggiava sbrigliatissima” .  Siamo musicalmente trasportati dentro la dimensione dell’essere umano con i suoi drammatici problemi che lo portano a chiedersi qual è il senso dell’”osceno gioco” che è la vita,  con tutto ciò che lo circonda, dai “domani luminosi” ai “silenzi che la sera raccoglie”, dalla lunga fila di “giorni già usati “, all’”affitto di questo corpo idiota” gettato in una scena “dove vivo la mia vita con un anticipo tremendo”. Una vita dove aleggia, per dirla con  Roberto Cotroneo “la consapevolezza del proprio peccato e dell’impossibilità di riscattarsene, l’avidità di luce e di quiete cui fa riscontro la condanna all’ombra e al tormento”. Il dramma dell’uomo contemporaneo che si ritrova a vivere “giocherellando a palla con il proprio cervello”.

 

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