Platone, il mito della caverna e il rifiuto della  conoscenza

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immaginedf2 (1) Il mito è una narrazione fantastica dietro cui ci sono precisi riferimenti e significati. I miti platonici vanno oltre la struttura fantastica e configurano una simbologia, spesso una semplificazione esplicativa, densa di riscontri. Il più affascinante di questi miti è quello della caverna, che da sempre è stato considerato un quadro preciso della condizione dell’umanità, un atto di denuncia nei confronti di chi non sa usare il proprio cervello o appiattisce la propria vita in una prigione di luoghi comuni da cui non vuole uscire, rispetto a una concezione salvifica della filosofia. Per alcuni versi Platone interpreta con molto anticipo il kantiano e illuministico “Sapere aude”, abbi il coraggio di camminare con le tue gambe, di usare la tua testa, dopo averla liberata dalle credenze che altri vi hanno sistemato sin dalla nascita. Sembra trovarsi davanti una lettura “al contrario “ del mito biblico di Adamo ed Eva che vivono nella “caverna” dell’Eden, ma che vogliono in un certo momento mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. La conseguenza sarà la cacciata dall’Eden perfetto e la condanna ai dolori dell’esistenza.  Per contro ritroviamo voci isolate, come quella del Battista, “vox clamans in deserto” o quella dello stesso Cristo che attraversa la buia caverna della morte, causata dagli uomini e ne esce risorto. Il racconto è complesso ma ne propongo prima una breve sintesi per coloro, e oggi sono la maggioranza, che non vogliono addentrarsi in una lettura lunga e impegnativa.

 

Il mito

In una caverna sotterranea, sin da bambini,  sono prigionieri e incatenati, in modo da poter guardare solo il fondo della caverna,  alcuni uomini. Alle loro spalle c’è una luce alta e lontana, un fuoco  e, davanti ad esso un muretto. Dietro il muro alcune persone (sacerdoti) passano portando statuette di vari oggetti che proiettano la loro ombra sulla parete I prigionieri, non avendo  mai visto gli oggetti reali, credono  che le ombre proiettate sul fondo della caverna siano gli oggetti  e che gli echi siano le voci reali delle persone. In un certo momento un prigioniero si libera,  sale sul sentiero che porta all’uscita della  caverna, rimane in un primo momento abbagliato dalla luce,  quando si è  abituato, si accorge che  le ombre altro non sono  che la proiezione degli oggetti trasportati dalle persone dietro il muretto e  crede che le statuette siano la realtà . Quando finalmente riesce ad oltrepassare la soglia della caverna, dopo avere ancora una volta scambiato per realtà le immagini delle cose riflesse nelle acque di un laghetto, vede le cose illuminate dalla luce del sole (il bene). A questo punto si potrebbe ritenere concluso il percorso della conoscenza. Per contro l’uomo diventato libero sente il dovere, lo stimolo morale di condividere con gli altri la sua trovata verità, e quindi rientra nella caverna. Anche qua c’è subito la difficoltà di riadeguarsi al buio, e quindi  di vedere le cose in modo difforme da chi invece al buio è abituato. Il grido, l’esortazione a sciogliere le catene e a uscire dalla caverna per cogliere “il vero” nella sua interezza è ritenuto dagli altri come la trovata o la credenza di un folle, di un visionario, di uno che vuole mettere a rischio la vita abitudinaria di chi ormai si è adagiato totalmente sulle false credenze e le crede reali.

 

I simboli

Nel dettaglio il mito propone alcuni stadi di conoscenza:

-le ombre  proiettate sulla parete sono il primo livello della conoscenza, le credenze, ciò che i signori che trasmettono le immagini vogliono farti credere sia il vero, in altri termini ciò che si presenta ai sensi, la sensazione come momento superficiale  e immediato attraverso la quale si coglie la manifestazione esteriore, l’apparire delle cose. Oggi è facile associare il significato al mondo della celluloide, a quello dell’immagine televisiva, ovvero alla costante proiezione di modi di vivere, di violenze, di cerimoniali, di principi morali, legali, religiosi,  etnici, artistici, che riproducono storie immaginarie, presentandole come vere o come ricostruzioni verisimili. In termini platonici è la conoscenza più falsa. Si potrebbe parlare di una conoscenza infantile dominata da fantasie e approssimative contingenze

-Le statuette o simulacri: si noti che simulacro significa “raffigurazione in forma simile” e che le statuette sono riproduzioni delle cose: chi riesce a liberarsi e le nota non può liberarsi dal sospetto che siano le cose stesse. Il che è tipico della dottrina platonica, secondo la quale le cose che appaiono ai sensi sono imitazioni delle cose reali, ovvero delle strutture ideali o idee.   Si potrebbe  ipotizzare il simulacro come l’insieme di verità ufficiali, confezionate per essere credute e accettate come realtà, ma ad uso e consumo dei “sacerdoti” che le portano e le proiettano, ovvero dei signori dell’informazione che creano il consenso e l’acquiescenza della maggioranza alle verità preconfezionate. Il passaggio è quello dalla sensazione all’impressione, al momento in cui si scopre l’origine dell’ombra, ma, credendo di andare al di là dell’ombra, si scambia per vero ciò che è frutto di un altro inganno, Si potrebbe pensare a una conoscenza adolescenziale, ricca di immaginazione, di costruzioni elaborate e ingigantite che si restringono e si condensano come dati reali..

-Le immagini riflesse: anche queste sono false verità, per quanto il passaggio dall’oggetto reale all’acqua che lo riflette sia diretto. Siamo nella costante ricerca della verità, da parte del filosofo, che non dà mai niente per scontato, che cerca con ostinazione le connessioni tra  i vari dati per scoprirne il significato che sta sotto ad esse. Si potrebbe pensare alla conoscenza dell’età adulta, quando riflessi, luci, ombre, movimenti, voci, si intrecciano in strani percorsi scambiati da ogni soggetto vivente come momenti reali e irripetibili del proprio essere, ma in realtà come conseguenze estreme, certamente scremate, ma ancora presenti del proprio vissuto, destinate ad essere rimesse in discussione attraverso il tempo. Siamo alla soglia delle idee, anzi siamodavanti ad idee che hanno una loro validità momentanea, ma non hanno il timbro dell’immortalità, dell’eternità, dell’immutabilità.

-Le idee: in termini platonici le idee sono la realtà autentica, le strutture mentali che vengono riscoperte, associate, rivissute, attraverso la reminiscenza, nei dati dell’apparenza. Sono ciò che è presente nella mente sin dalla nascita, intravisto in una precedente esperienza di vita e dimenticato nel bagno sul fiume Lete, ma destinato a ricomparire perché nascosto nelle zone latenti della nostra coscienza. Platone anticipa, senza girarci attorno, quello che sarà il cogito-sum cartesiano, il pensiero che è la prima manifestazione che giustifica l’essere e senza il quale l’essere non può esistere. Il concetto è espresso nell’invocazione che Zaratustra rivolge al sole: “O grande astro, che cosa sarebbe la tua grandezza se al mondo non ci fossero coloro per i quali tu risplendi?” Ma anche  Kant non si è evoluto molto, rispetto allo schema platonico: il fenomeno, ciò che appare, le forme a priori, ovvero i contenitori che accolgono e sistemano i dati dell’esperienza, il noumeno il pensabile ma non conoscibile. Idem dicasi di Schopenhauer e del suo mondo come rappresentazione ricoperta dal denso velo di Maia, dietro cui sta la Volontà inconoscibile, o accessibile solo attraverso l’ascesi. Per il resto i noemi della fenomenologia husserliana o gli archetipi junghiani riflettono da angoli diversi lo stesso principio platonico della presenza negli esseri umani di linee guida a priori  o categorie che organizzano il dato empirico.

 

  Dentro e fuori la caverna

I salti nominalistici non si differenziano più di tanto dalla tripartizione stoica del dato (l’essere concreto), il significato, ovvero ciò che il dato significa per il soggetto conoscente,  e il significante, ossia il termine con cui si indica il dato.

In linea di massima i vari pensatori e hanno la tendenza a dividere tutto in tre livelli:  i tre gradi di conoscenza, (sensazione, intelletto, ragione), oppure, come in Spinoza, sensazione, ragione e intuizione, dove l’intuizione è il supremo livello di conoscenza dato dal superamento delle barriere razionali in una cosmica visione in cui ci si sente parte di un tutto, che è Deus sive natura. In Spinoza  pensiero ed estensione erano attributi di un solo essere, in Platone invece era già delineata la “scissione” che il pensiero occidentale si sarebbe portato appresso tra l’Iperuranio perfetto e il mondo reale, sua immagine sbiadita, tra il mondo terreno limitato e il mondo ultraterreno compiuto. Quella scissione che ha dato vita all’hegeliana coscienza infelice.

Tornando al mito, la sua  accezione più immediata è data dalla grande massa di “dormienti”, di gente assopita, sedata, sistemata nel suo loculo, imbottita di presunte certezze. Già Eraclito aveva segnato il confine tra i dormienti, cioè quelli che si fermano alle apparenze e gli svegli, ovvero i filosofi, quelli che si sforzano di capire il senso delle cose. Nulla a che fare con i “dormienti” di Efeso o con quelli della sura XVIII del Corano, nascosti in una grotta, in entrambi i casi per sfuggire alle persecuzioni di un tiranno.  Socrate è forse l’esempio più caro per Platone, di uomo che trova la luce della verità, ma quando tenta di portarla agli uomini è condannato a morte.

Per quel che riguarda l’emancipazione di queste masse, nel corso della storia si è spesso verificato che esse sono andate appresso a un profeta, a un comico, a un venditore di fumo, salvo poi una volta esaurita la ventata di speranza nell’innovazione immaginata, tornare dentro la caverna e riassopirsi nel sonno di sempre. Rimane da scegliere se credere nel raggiungimento, anzi, prima ancora, nell’esistenza di una verità  compiuta, se convincersi che essa è a portata dell’uomo o oltrepassa i suoi parametri di comprensione, se è il verbum o il logos da cui nasce tutto e che sta dentro il tutto oppure se ne è fuori in una tragica preclusione negata alla vita terrena. Ma già i quattro livelli di conoscenza ci inquadrano una serie di verità, di scelte, di occasionalità, di permanenti identità, di mutevoli soggettività, tra le quali è difficile, per fortuna,  trovare una linea comune, altrimenti bisognerebbe chiudere l’ingresso della caverna e omogeneizzare tutto in un unico polpettone, “il pensiero unico”.

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