IL GATTOPARDO SICILIANO
Ripropongo una pagina del romanzo di Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”, che dovrebbe essere conosciuta da ogni siciliano. Il “far vedere che qualcosa cambi, per non cambiare nulla” è una costante che già il nipote Tancredi aveva descritto allo zio prima di partire per combattere con i garibaldini. Ma il Principe di Salina aggiunge molto di più a questa tendenza atavica del siciliano all’immobilità e alla scarsa fiducia nel progresso come molla che può migliorare il siciliano e generare in lui la voglia di costruire qualcosa di nuovo. La tendenza “antistorica”, ovvero una valutazione negativa del progresso caratterizza i tre romanzi “storici” siciliani, “I Vicerè” di De Roberto, “I vecchi e i giovani” di Pirandello e, per l’appunto “Il Gattopardo”, ma è presente anche in molte considerazioni dei grandi narratori siciliani da Pirandello a Sciascia,a Brancati, a Bufalino, a Consolo e, per ultimo a Camilleri, passando per la mesta poesia di Quasimodo. Senza scordare, anzi mettendo avanti a tutti, il ciclo dei vinti di Giovanni Verga. Non si creda comunque che questa sia “l’identità” del siciliano, la sua sciasciana “sicilitudine” irredimibile. Cioè non si scambi una parte per il tutto. La storia della Sicilia è fatta anche di splendide figure di lottatori, la cui vita è stata spesso stroncata quando la loro lotta minacciava di sovvertire millenari modi di essere. La “metafora” siciliana ha sempre due facce, in continuo movimento e in continuo contrasto, la stasi e la lotta, la rivoluzione e la repressione, la mafia e l’antimafia, la giustizia privata come strumento alternativo all’assenza della giustizia pubblica, la vendetta e il perdono, la ricchezza e la miseria, la gioia e il dolore, la vita e la morte, in un intreccio in cui tutto si confonde e si concretizza: per dirla con Goethe, “l’isola in cui tutto è compiuto”, una compiutezza che si realizza giornalmente.
Dal libro “Il Gattopardo”
“Alle quattro del pomeriggio il Principe fece dire a Chevalley che lo aspettava nello studio. Era questo una piccola stanza con ai muri sotto vetro alcune pernici imbalsamate, di quelle grigie a zampette rosse stimate rare, trofei di caccie passate; una parete era nobilitata da una libreria alta e stretta colma di annate di riviste matematiche; al di sopra della grande poltrona destinata ai visitatori, una costellazione di miniature di famiglia: il padre di Don Fabrizio, il principe Paolo, fosco di carna-gione e sensuale di labbra quanto un Saraceno, con la nera uniforme di Corte tagliata a sghembo dal cordone di S. Gennaro; la principessa Carolina, già vedova, i capelli biondissimi accumulati in una pettinatura a torre ed i severi occhi azzurri; la sorella del Principe, Giulia, la principessa di Falconeri seduta su una panca da giardino, con alla destra la macchia amaranto di un piccolo parasole poggiato aperto per terra ed alla sinistra quella gialla di un Tancredi di tre anni che reca dei fiori di campo (questa miniatura Don Fabrizio se l’era cacciata in tasca di nascosto mentre gli uscieri inventariavano il mobilio di villa Falconeri). Poi più sotto, Paolo il primogenito, in attillati calzoni da cavalcare, in atto di salire su un cavallo focoso dal collo arcuato e dagli occhi sfavillanti; zii e zie varie non meglio identificati, ostentavano gioielloni o indicavano, dolenti, il busto di un caro estinto. Al sommo della costellazione, però, in funzione di stella polare, spiccava una miniatura più grande: Don Fabrizio stesso, poco più che ventenne con la giovanissima sposa che poggiava la testa sulla spalla di lui in atto di completo abbandono amoroso; lei bruna; lui roseo nell’uniforme azzurra e argentea delle Guardie del Corpo del Re sorrideva compiaciuto col volto incorniciato dalle basette biondissime di primo pelo.
Appena seduto Chevalley espose la missione della quale era stato incaricato: “Dopo la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna, è intenzione del governo di Torino di procedere alla nomina a Senatori del Regno alcuni illustri siciliani; le autorità provinciali sono state incaricate di redigere una lista di personalità da proporre all’esame del governo centrale ed eventualmente, poi, alla nomina regia e, come è ovvio, a Girgenti si è subito pensato al suo nome, Principe: un nome illustre per antichità, per il prestigio personale di chi lo porta, per i meriti scientifici, per l’attitudine dignitosa e liberale, anche, assunta durante i recenti avvenimenti.” Il discorsetto era stato preparato da tempo, anzi era stato oggetto di succinte note a matita sul calepino che adesso riposava nella tasca posteriore dei pantaloni di Chevalley. Don Fabrizio però non dava segno di vita, le palpebre pesanti lasciavano appena intravedere lo sguardo. Immobile la zampaccia dai peli biondastri ricopriva interamente una cupola di S. Pietro in alabastro che stava sul tavolo.
Ormai avvezzo alla sornioneria dei loquaci siciliani quando si propone loro qualcosa, Chevalley non si lasciò smonta-re: “Prima di far pervenire la lista a Torino i miei superiori hanno creduto dover informare lei stesso, e farle chiedere se questa proposta sarebbe di Suo gradimento.Richiedere il suo assenso, nel quale le autorità sperano molto è stato l’oggetto della mia missione qui, missione che per altro mi ha valso l’onore e il piacere di conoscere Lei ed i suoi, questo magnifico palazzo e questa Donnafugata tanto pittoresca.”
Le lusinghe scivolavano via dalla personalità del Principe come l’acqua dalle foglie delle ninfee: questo è uno dei vantaggi dei quali godono gli uomini che sono allo stesso tempo orgogliosi ed abituati ad esserlo. “Adesso questo qui s’immagina di venire a farmi un grande onore” pensava “a me, che sono quel che sono, fra l’altro anche Pari del Regno di Sicilia, il che dev’essere press’a poco come essere senatore. È vero che i doni bisogna valutarli in relazione a chi li offre: un contadino che mi dà il suo pezzo di pecorino mi fa un regalo più grande di Giulio Làscari quando m’invita a pranzo. Il guaio è che il pecorino mi dà la nausea; e così non resta che la gratitudine che non si vede e il naso arricciato dal disgusto che si vede fin troppo.” Le idee sue in fatto di Senato erano del resto vaghissime; malgrado ogni suo sforzo esse lo riconducevano sempre al Senato Romano al senatore Papirio che aveva spezzato una bacchetta sulla testa di un Gallo maleducato, a un cavallo Incitatus che Caligola aveva fatto senatore, onore questo che soltanto suo figlio Paolo non avrebbe trovato eccessivo; lo infastidiva anche il riaffacciarsi insistente di una frase detta talvolta da Padre Pirrone: “Senatores boni viri, senatus autem mala bestia.” Adesso vi era anche il Senato dell’Impero di Parigi, ma non era che una assemblea di profittatori muniti di larghe prebende. Vi era o vi era stato un Senato anche a Palermo ma si era trattato soltanto di un comitato di amministratori civici, e di quali amministratori! Robetta per un Salina. Volle sincerarsi: “Ma insomma, cavaliere, mi spieghi un po’ che cosa è veramente essere senatori. La stampa della passata monarchia non lasciava passare notizie sul sistema costituzionale degli altri stati italiani, e un soggiorno di una settimana a Torino due anni fa non è stato sufficiente a illuminarmi. Cosa è? un semplice appel-lativo onorifico, una specie di decorazione? o bisogna svolgere funzioni legislative, deliberative?”
Il Piemontese, il rappresentante del solo stato liberale italiano, s’inalberò: “Ma, Principe, il Senato è la Camera Alta del Regno! In essa il fiore degli uomini politici del nostro paese prescelti dalla saggezza del Sovrano, esaminano, discutono, approvano o respingono quelle leggi che il Governo o essi stessi propongono per il progresso del paese; esso funziona nello stesso tempo da sprone e da briglia, incita al ben fare, impedisce di strafare. Quando avrà accettato di prendervi posto, Lei rappresenterà la Sicilia alla pari dei deputati eletti, farà udire la voce di questa bellissima terra che si affaccia adesso al panorama del mondo moderno, con tante piaghe da sanare, con tanti giusti desideri da esaudire.”
Chevalley avrebbe forse continuato a lungo su questo tono se Bendicò non avesse da dietro la porta chiesto alla “saggezza del Sovrano” di essere ammesso; Don Fabrizio fece l’atto di alzarsi per aprire ma lo fece con tanta mollezza da dar tempo al Piemontese di lasciarlo entrare lui; Bendicò, meticoloso, fiutò a lungo i calzoni di Chevalley; dopo, persuaso di aver da fare con un buon uomo si accovacciò sotto la finestra e dormì.
“Stia a sentirmi, Chevalley; se si fosse trattato di un segno di onore, di un semplice titolo da scrivere sulla carta da visita e basta, sarei stato lieto di accettare; trovo che in questo momento decisivo per il futuro dello stato italiano è dovere di ognuno dare la propria adesione, evitare l’impressione di screzi dinanzi a quegli stati esteri che ci guardano con un timore o con una speranza che si riveleranno ingiustificati ma che per ora esistono.”
“Ma allora, principe, perché non accettare?”
“Abbia pazienza, Chevalley, adesso mi spiegherò; noi Siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua, a spaccare i capelli in quattro. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. Adesso la piega è presa, siamo fatti così. Avevo detto ‘adesionè non ‘partecipazionè. In questi sei ultimi mesi, da quando il vostro Garibaldi ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento; adesso non voglio discutere se ciò che si è fatto è stato male o bene; per conto mio credo che parecchio sia stato male; ma voglio dirle subito ciò che Lei capirà da solo quando sarà stato un anno fra noi. In Sicilia non importa far male o far bene; il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘farè. Siamo vecchi, Chevalley, vecchissimi. Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate, nessuna germogliata da noi stessi, nessuna a cui abbiamo dato il ‘la’; noi siamo dei bianchi quanto lo è lei, Chevalley, e quanto la regina d’Inghilterra; eppure da duemila cinquecento anni siamo colonia. Non lo dico per lagnarmi: è in gran parte colpa nostra; ma siamo stanchi e svuotati lo stesso.”
Adesso Chevalley era turbato. “Ma ad ogni modo questo adesso è finito; adesso la Sicilia non è più terra di conquista ma libera parte di un libero stato”.
“L’intenzione è buona, Chevalley, ma tardiva; del resto le ho già detto che in massima parte è colpa nostra; Lei mi parlava poco fa di una giovane Sicilia che si affaccia alle meraviglie del mondo moderno; per conto mio mi sembra piuttosto una centenaria trascinata in carrozzella alla Esposizione Universale di Londra, che non comprende nulla, che s’impipa di tutto, delle acciaierie di Sheffield come delle filande di Manchester, e che agogna soltanto di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto.”
Parlava ancora piano, ma la mano attorno a S. Pietro si stringeva; l’indomani la crocetta minuscola che sormontava la cupola venne trovata spezzata. “Il sonno, caro Chevalley, il sonno è ciò che i Siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portar loro i più bei regali; e, sia detto fra noi, ho i miei forti dubbi che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagagliaio. Tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio di oblio, le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella; il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia scrutare gli enigmi del nirvana. Da ciò proviene il prepotere da noi di certe persone, di coloro che sono semi-desti; da ciò il famoso ritardo di un secolo delle manifestazioni artistiche ed intellettuali siciliane: le novità ci attraggono soltanto quando le sentiamo defunte, incapaci di dar luogo a correnti vitali; da ciò l’incredibile fenomeno della formazione attuale, contemporanea a noi, di miti che sarebbero venerabili se fossero antichi sul serio, ma che non sono altro che sinistri tentativi di rituffarsi in un passato che ci attrae appunto perché è morto.”
Non ogni cosa era compresa dal buon Chevalley; soprattutto gli riusciva oscura l’ultima frase: aveva visto i carretti variopinti trainati dai cavalli impennacchiati e denutriti, aveva sentito parlare del teatro di burattini eroici, ma anche lui credeva che fossero vecchie tradizioni autentiche. Disse: “Ma non le sembra di esagerare un po’, principe? io stesso ho conosciuto a Torino dei Siciliani emigrati, Crispi per nominarne uno, che mi son sembrati tutt’altro che dei dormiglioni.”
Il Principe si seccò: “Siamo troppi perché non vi siano delle eccezioni; ai nostri semi-desti, del resto avevo di già accennato. In quanto a questo giovane Crispi, non io certamente, ma Lei potrà forse vedere se da vecchio non ricadrà nel nostro voluttuoso vaneggiare: lo fanno tutti. D’altronde vedo che mi sono spiegato male: ho detto i Siciliani, avrei dovuto aggiungere la Sicilia, l’ambiente, il clima, il paesaggio. Queste sono le forze che insieme e forse più che le dominazioni estranee e gl’incongrui stupri hanno formato l’animo: questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; che non è mai meschino, terra terra, distensivo, umano, come dovrebbe essere un paese fatto per la dimora di esseri razionali; questo paese che a poche miglia di distanza ha l’inferno attorno a Randazzo e la bellezza della baia di Taormina, ambedue fuor di misura, quindi pericolosi; questo clima che c’infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; li conti, Chevalley, li conti: Maggio, Giugno, Luglio, Agosto, Settembre, Ottobre; sei volte trenta giorni di sole a strapiombo sulle teste; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo e contro la quale si lotta con minor successo; Lei non lo sa ancora, ma da noi si può dire che nevica fuoco, come sulle città maledette della Bibbia; in ognuno di quei mesi se un Siciliano lavorasse sul serio spenderebbe l’energia che dovrebbe essere sufficiente per tre; e poi l’acqua che non c’è o che bisogna trasportare da tanto lontano che ogni sua goccia è pagata da una goccia di sudore; e dopo ancora, le pioggie, sempre tempestose che fanno impazzire i torrenti asciutti, che annegano bestie e uomini proprio lì dove una settimana prima le une e gli altri crepavano di sete. Questa violenza del paesaggio, questa crudeltà del clima, questa tensione continua di ogni aspetto, questi monumenti, anche del passato, magnifici ma incomprensibili perché non edificati da noi e che ci stanno intorno come bellissimi fantasmi muti; tutti questi governi, sbarcati in armi da chissà dove, subito serviti, presto detestati e sempre incompresi, che si sono espressi soltanto con opere d’arte per noi enigmatiche e con concretissimi esattori d’imposte spese poi altrove; tutte queste cose hanno formato il carattere nostro che rimane così condizionato da fatalità esteriori oltre che da una terrificante insularità di animo.”
L’inferno ideologico evocato in quello studiolo sgomentò Chevalley più della rassegna sanguinosa della mattina. Volle dire qualche cosa, ma Don Fabrizio era troppo eccitato adesso per ascoltarlo.
“Non nego che alcuni Siciliani trasportati fuori dell’isola possano riuscire a smagarsi: bisogna però farli partire quando sono molto, molto giovani: a vent’anni è già tardi; la crosta è già fatta, dopo: rimarranno convinti che il loro è un paese come tutti gli altri, scelleratamente calunniato; che la normalità civilizzata è qui, la stramberia fuori. Ma mi scusi, Chevalley, mi son lasciato trascinare e la ho probabilmente infastidito. Lei non è venuto sin qui per udire Ezechiele deprecare le sventure d’Israele. Ritorniamo al nostro vero argomento.
Sono molto riconoscente al governo di aver pensato a me per il Senato e la prego di esprimere a chi di dovere questa mia sincera gratitudine; ma non posso accettare. Sono un rappresentante della vecchia classe, inevitabilmente compromesso col regime borbonico, e ad esso legato dai vincoli della decenza in mancanza di quelli dell’affetto. Appartengo a una generazione disgraziata a cavallo fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come lei non avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo d’illusioni; e che cosa se ne farebbe il Senato di me, di un legislatore inesperto cui manca la facoltà d’ingannare sé stesso, questo requisito essenziale per chi voglia guidare gli altri? Noi della nostra generazione dobbiamo ritirarci in un cantuccio e stare a guardare i capitomboli e le capriole dei giovani attorno a quest’ornatissimo catafalco. Voi adesso avete bisogno di giovani, di giovani svelti, con la mente aperta al ‘comè più che al ‘perché’ e che siano abili a mascherare, a contemperare volevo dire, il loro preciso interesse particolare con le vaghe idealità politiche.” Tacque, lasciò in pace San Pietro. Continuò: “Posso dare a Lei un consiglio da trasmettere ai suoi superiori?”
“Va da sé, principe; esso sarà certo ascoltato con ogni considerazione; ma voglio ancora sperare che invece di un consiglio vorrà darci un assenso.”
“C’è un nome che io vorrei suggerire per il Senato: quello di Calogero Sedàra; egli ha più meriti di me per sedervi; il casato, mi è stato detto, è antico o finirà con esserlo; più che quel che Lei chiama il prestigio egli ha il potere; in mancanza dei meriti scientifici ne ha di pratici, eccezionali; la sua attitudine durante la crisi del Maggio scorso più che ineccepibile è stata utilissima; illusioni non credo che ne abbia più di me, ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra. È l’individuo che fa per voi. Ma dovete far presto, perché ho inteso dire che vuol porre la propria candidatura alla camera dei deputati.” Di Sedàra si era molto parlato in Prefettura, le attività di lui quale sindaco e quale privato erano note; Chevalley sussultò: era un onest’uomo e la propria stima delle camere legislative era pari alla purità delle proprie intenzioni; per questo credette opportuno non fiatare, e fece bene a non compromettersi perché, infatti, dieci anni più tardi, l’ottimo don Calogero doveva ottenere il laticlavio. Benché onesto, però, Chevalley non era stupido; mancava sì di quella prontezza di spirito che in Sicilia usurpa il nome di intelligenza, ma si rendeva conto delle cose con lenta solidità, e poi non aveva l’impenetrabilità meridionale agli affanni altrui. Comprese l’amarezza e lo sconforto di Don Fabrizio, rivide in un attimo lo spettacolo di miseria, di abiezione, di nera indifferenza del quale per un mese era stato testimonio; nelle ore passate aveva invidiato l’opulenza, la signorilità dei Salina, adesso ricordava con tenerezza la propria vignicciuola, il suo Monterzuolo vicino a Casale, brutto, mediocre, ma sereno e vivente; ebbe pietà tanto del principe senza speranze come dei bimbi scalzi, delle donne malariche, delle non innocenti vittime i cui elenchi giungevano così spesso al suo ufficio; tutti eguali, in fondo, compagni di sventura segregati nel medesimo pozzo.
Volle fare un ultimo sforzo: si alzò e l’emozione conferiva pathos alla sua voce: “Principe, ma è proprio sul serio che lei si rifiuta di fare il possibile per alleviare, per tentare di rimediare allo stato di povertà materiale, di cieca miseria morale nelle quali giace questo che è il suo stesso popolo? Il clima si vince, il ricordo dei cattivi governi si cancella, i Siciliani vorranno migliorare; se gli uomini onesti si ritirano, la strada rimarrà libera alla gente senza scrupoli e senza prospettive, ai Sedàra; e tutto sarà di nuovo come prima, per altri secoli. Ascolti la sua coscienza, principe, e non le orgogliose verità che ha detto. Collabori.”
Don Fabrizio gli sorrideva, lo prese per la mano, lo fece sedere vicino a lui sul divano: “Lei è un gentiluomo, Chevalley, e stimo una fortuna averlo conosciuto; Lei ha ragione in tutto; si è sbagliato soltanto quando ha detto: ‘i Siciliani vorranno migliorare.’ Le racconterò un aneddoto personale. Due o tre giorni prima che Garibaldi entrasse a Palermo mi furono presentati alcuni ufficiali di marina inglesi, in servizio su quelle navi che stavano in rada per rendersi conto degli avvenimenti. Essi avevano appreso, non so come, che io posseggo una casa alla Marina, di fronte al mare, con sul tetto una terrazza dalla quale si scorge la cerchia dei monti intorno alla città; mi chiesero di visitare la casa, di venire a guardare quel panorama nel quale si diceva che i Garibaldini si aggiravano e del quale, dalle loro navi non si erano fatti una idea chiara. Vennero a casa, li accompagnai lassù in cima; erano dei giovanottoni ingenui malgrado i loro scopettoni rossastri. Rimasero estasiati dal panorama, della irruenza della luce; confessarono però che erano stati pietrificati osservando lo squallore, la vetustà, il sudiciume delle strade di accesso. Non spiegai loro che una cosa era derivata dall’altra, come ho tentato di fare a lei. Uno di loro, poi, mi chiese che cosa veramente venissero a fare, qui in Sicilia, quei volontari italiani. ‘They are coming to teach us good manners’ risposi ‘but wont succeed, because we are gods.’ ‘Vengono per insegnarci le buone creanze ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi.’ Credo che non comprendessero, ma risero e se ne andarono. Così rispondo anche a Lei; caro Chevalley: i Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla; calpestati da una decina di popoli differenti essi credono di avere un passato imperiale che dà loro diritto a funerali sontuosi. Crede davvero Lei, Chevalley, di essere il primo a sperare di incanalare la Sicilia nel flusso della storia universale? Chissà quanti imani mussulmani, quanti cavalieri di re Ruggero, quanti scribi degli Svevi, quanti baroni angioini, quanti legisti del Cattolico hanno concepito la stessa bella follia; e quanti viceré spagnoli, quanti funzionari riformatori di Carlo III; e chi sa più chi siano stati? La Sicilia ha voluto dormire, a dispetto delle loro invocazioni; perché avrebbe dovuto ascoltarli se è ricca, se è saggia, se è onesta, se è da tutti ammirata e invidiata, se è perfetta, in una parola?
“Adesso anche da noi si va dicendo in ossequio a quanto hanno scritto Proudhon e un ebreuccio tedesco del quale non ricordo il nome, che la colpa del cattivo stato delle cose, qui ed altrove, è il feudalesimo; mia cioè, per così dire. Sarà. Ma il feudalesimo c’è stato dappertutto, le invasioni straniere pure. Non credo che i suoi antenati, Chevalley, o gli squires inglesi o i signori francesi governassero meglio dei Salina. I risultati intanto sono diversi. La ragione della diversità deve ritrovarsi in quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano, che noi stessi chiamiamo fierezza, che in realtà è cecità. Per ora, per molto tempo, non c’è niente da fare. Compiango; ma, in via politica, non posso porgere un dito. Me lo morderebbero. Questi sono discorsi che non si possono fare ai Siciliani; ed io stesso, del resto, se queste cose le avesse dette lei, me ne sarei avuto a male.
“È tardi. Chevalley: dobbiamo andare a vestirci per il pranzo. Debbo recitare per qualche ora la parte di un uomo civile.”
L’indomani mattina presto Chevalley ripartì e a Don Fabrizio,che aveva stabilito di andare a caccia, riuscì facile accompagnarlo alla stazione di posta. Don Ciccio Tirmeo era con loro e portava sulle spalle il doppio peso dei due fucili, il suo e quello di Don Fabrizio, e dentro di sé la bile delle proprie virtù conculcate. Intravista nel chiarore livido delle cinque e mezza del mattino, Donnafugata era deserta ed appariva disperata. Dinanzi a ogni abitazione i rifiuti delle mense miserabili si accumulavano lungo i muri lebbrosi; cani tremebondi li rimestavano con avidità sempre delusa. Qualche porta era già aperta ed il lezzo dei dormienti pigiati dilagava nella strada; al barlume dei lucignoli le madri scrutavano le palpebre tracomatose dei bambini; esse erano quasi tutte in lutto e parecchie erano state Ie mogli di quei fantocci sui quali s’incespica agli svolti delle”trazzere.” Gli uomini, abbrancato lo “zappone” uscivano per cercare chi, a Dio piacendo, desse loro lavoro; silenzio atono o stridori esasperati di voci isteriche; dalla parte di Santo Spirito I’alba di stagno cominciava a sbavare sulle nuvole plumbee. Chevalley pensava: “Questo stato di cose non durerà; Ia nostra amministrazione, nuova, agile, moderna cambierà tutto.” Il Principe era depresso: “Tutto questo” pensava “non dovrebbe poter durare; però durerà, sempre; il sempre umano, beninteso, un secolo, due secoli…; e dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti, le iene; e tutti quanti Gattopardi, sciacalli e pecore, continueremo a crederci il sale della terra.” Si ringraziarono scambievolmente, si salutarono. Chevalley s’inerpicò sulla vettura di posta, issata su quattro ruote color di vomito. Il cavallo, tutto fame e piaghe, iniziò il lungo viaggio. Era appena giorno; quel tanto di luce che riusciva a trapassare il coltrone di nuvole era di nuovo impedito dal sudiciume immemoriale del finestrino. Chevalley era solo; fra urti e scossoni si bagnò di saliva la punta dell’indice, ripulì il vetro per l’ampiezza di un occhio. Guardò; dinanzi a lui sotto Ia luce di cenere, il paesaggio sobbalzava, irredimibile.”
© Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, Milano 1978