Antimafie

Antimafia (1)Antimafie

 

Salvo Vitale

 

Quando, il 10 gennaio 1987 Sciascia parlò, in un articolo sul Corriere della Sera, di “professionisti dell’antimafia”, si scatenò il finimondo: da destra c’era chi sosteneva che alcuni magistrati e politici avevano avuto una carriera facile, grazie all’antimafia, da sinistra c’era, come Nando Dalla Chiesa chi sosteneva invece che gran parte delle carriere facili erano state quelle di magistrati e politici che non avevano mai parlato di mafia. Chi attacca la mafia, soprattutto grazie a un cancan mediatico, si garantisce da chiunque possa attaccarlo, perché sarebbe facile tacciare costui di essere “mafioso” o amico dei mafiosi, o, nel migliore dei casi, strumento inconsapevole che fa il gioco della mafia.

“Quindi, rafforzerà, volente o nolente, il ruolo che al momento sta svolgendo, e molto difficilmente avrà reali oppositori. O, nei vari concorsi, avrà la “vittoria in tasca”, perché una sua sconfitta sarebbe impopolare, farebbe cadere un mare di contestazioni sugli organizzatori. O, in un partito, sarà il naturale candidato a sindaco (o altra carica prestigiosa), qui non solo perché scelta diversa sarebbe impopolare, ma anche perché oggettivamente sarebbe – eccetto casi particolarissimi – colui che avrebbe le maggiori chances di vittoria nella rosa dei candidati.” (Luigi Grisolia: direfarescrivere, anno III, n. 12, febbraio 2007).

L’attacco di Sciascia fu fatto nei confronti di Borsellino, che aveva avuto la nomina a Procuratore capo di Marsala e di Leoluca Orlando, sindaco della “primavera di Palermo”.  Da allora la definizione è stata usata e abusata nei confronti di chi, dalla sua scelta di fare antimafia abbia avuto qualche vantaggio economico, politico, di carriera.

Anni fa, a Barcellona Pozzo di Gotto, Marco Travaglio ebbe a dire: “Magari ce ne fossero tanti professionisti dell’antimafia!” Ma si rivolgeva a chi dell’antimafia ha fatto una professione di vita, una scelta ideologica.  Dopo il documentato lavoro di Umberto Santino, la  “Storia del movimento antimafia”, e dopo la favorevole stagione degli anni ’90, negli ultimi tempi l’antimafia sembra essere andata in crisi, sino a subire attacchi durissimi, a causa di eventi e situazioni poco edificanti portati avanti da persone che predicano bene e razzolano male. E’ il caso dell’allegra  gestione dell’ufficio Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo, condotto da Silvana Saguto e da una serie di collaboratori, soprattutto giudici e amministratori giudiziari, ma anche delle vicende giudiziarie di industriali paladini dell’antimafia, come Helg, Montante e altri, per non parlare di una serie di accuse nei confronti della gestione di alcuni beni confiscati e affidati a Libera. Questo articolo riporta e integra alcune tipologie di antimafia illustrate prima su “I Siciliani giovani”(1.9.2013) e poi su “L’Ora” (11.3.2015)

L’antimafia di mestiere.

C’è chi con la sigla dell’antimafia ci lavora, dà lavoro e vuole anche esprimere il principio che un’imprenditoria libera dalle catene della mafia è possibile. Parliamo delle due maggiori associazioni antimafia, Addio Pizzo e Libera. Nel sito di Addio Pizzo troviamo una vera e propria agenzia di viaggi per realizzare una forma di turismo civile o impegnato, con visite guidate nei “luoghi” dell’antimafia, pullman, soste per i pasti e per gli acquisti, alberghi. Una parte minima della quota è offerta, come contributo, ai titolari delle strutture visitate (per esempio il museo della Legalità di Corleone o la Casa Memoria di Cinisi). Turisti a parte, esiste anche un progetto di Addio Pizzo sulle visite guidate delle scolaresche a Palermo: i prezzi variano da sette a dieci euro a testa, a seconda del numero e dell’itinerario. Per esempio, cento alunni che pagano sette euro a testa (pullman esclusi), frutteranno 700 euro che  per  una guida, sembrano troppi. Pare che quest’anno i prezzi sono stati ribassati. Su Libera si possono fare infinite altre illazioni, giustificabili nel momento che si tratta di una struttura che coinvolge circa duemila associazioni che non è facile tenere sotto controllo. Il suo bilancio 2013 (sul sito)  è di 4.770.221 di entrate e 4,414.201 di uscite, con una differenza attiva a pareggio di 306.020: la maggior parte delle entrate è alla voce “Istituzioni”, riferendosi certamente a progetti finanziati di educazione alla legalità nelle scuole. Il costo dei prodotti biologici (che sembrerebbe a prima vista incompatibile col mercato) mediamente risulta molto alto perché comprende il sostegno alle coop che agiscono in un territorio difficile, per portare avanti il progetto rivoluzionario di un’economia che può fare a meno della protezione mafiosa. Più ridotto il volume di affari di Addio Pizzo, che arriva a 397.852 euro, in gran parte provenienti dal finanziamento del Pon Sicurezza (221.985). Interessante anche l’attività di un’agenzia collegata, Addio Pizzo Travel, che promuove forme di turismo responsabile mettendo a disposizione itinerari, strutture ricettive e ricreative, oltre che ristorazione.

A seguito di una brutta polemica con Giovanni Impastato, accusato di fare “antimafia in pizzeria”, Pino Maniaci, direttore di Telejato, ha detto: “L’antimafia non va fatta a fini di lucro. Il problema economico, vuole anche il suo spazio:  nessuno si scandalizza se qualcuno chiede un contributo per la gestione di una struttura o per portare avanti iniziative. Ma se tutto questo diventa un “tour di turismo civile e responsabile”, con apposito pacchetto di viaggio, pullman,  contributo da versare, si va un po’ oltre il fare antimafia e basta, e l’antimafia diventa un fatto commerciale.

L’antimafia di parata.

E’ la più praticata:  è d’obbligo partecipare, per l’anniversario della morte della vittima, a una messa in memoria, cui sono invitati gli uomini in divisa, i parenti, qualche giornalista con telecamera, le autorità, compreso il sindaco, e altri rappresentanti istituzionali. Per i rappresentanti delle forze dell’ordine la parata può anche essere esteriorizzata con il trombettiere che suona il “silenzio”, mentre tutti tacciono, assumono una faccia triste, e i militari presenti si schierano con la mano destra a taglio sulla fronte per il saluto militare. In altri casi si dà luogo a un capannello per scoprire una lapide o una targa di intestazione di una strada, oppure per sfilare in corteo: tra questi,quello che ha avuto continuità, partecipazione numerosa, e contenuti, è quello che ogni 9 maggio si snoda da Terrasini a Cinisi per ricordare Peppino Impastato. Da alcuni anni, con l’inizio della primavera, Libera effettua una giornata nazionale contro le mafie, ogni anno in una città diversa.Strettamente collegata è “l’antimafia dei convegni”, con relatori più o meno importanti latori di testimonianze personali, oppure esperti che si dilungano in dotte relazioni bla-bla, con linguaggio incomprensibile e certamente non rapportato ai livelli di preparazione di chi ascolta; il tutto con biglietto, albergo e pranzo prepagati, preceduto da un manifesto, da una locandina e dall’indispensabile presenza dell’operatore televisivo, con relativa intervista. Difficile constatare che, chi esca dopo avere ascoltato, possa anche avere interiorizzato qualcosa che lo porti ad operare con più coscienza su questo difficile terreno. Per non parlare delle mega-parate organizzate in occasione del 23 maggio, per ricordare Falcone, con nolo di navi, distribuzione di magliette, borsette, berrettini ed altri gadget e allegri schiamazzi, il tutto con spese che, si dice, si aggirino sui due milioni di euro,  pagate con il contributo dello stato.

 

L’antimafia scolastica.

Da alcuni anni i piani dell’offerta formativa prevedono progetti di “educazione alla legalità”, approvati dal Collegio dei docenti e finanziati, in parte con le magre risorse delle scuole, in parte con i fondi regionali (POR), nazionali (PON) o europei (FER­ST). Si tratta di presentare articolati progetti con formulari precisi, dettagliato utilizzo delle somme, da giustificare al centesimo, e che in parte vengono distribuite tra ore da pagare ai docenti e non docenti, spese per l’intervento di eventuali relatori e formatori, spese per pubblicizzare l’evento, spese per la costruzione di un “prodotto”, da allegare alle note giustificative.

La scuola assicura un pubblico, quello degli studenti, felici di uscire per qualche ora dalla loro aula e curiosi di ascoltare qualcosa di diverso: sui docenti ci sarebbe da fare un discorso a parte, considerato che alcuni approfittano di questi momenti per “evadere”, magari andare a fare la spesa o sistemare il registro, altri, per far credere che lavorano, sporgono forti lamentele al preside, perché vengono sottratte loro “ore di lezione”, altri ancora sparano giudizi feroci, come: ”I ragazzi sono stanchi di sentir parlare di mafia”, oppure: “E’ stato tutto un momento di indottrinamento politico di sinistra”. Oppure, ma questo l’ha detto anche il sindaco di Trapani, che “a scuola non bisogna parlare di mafia, per non mettere paura agli studenti: è meglio parlare di altro, di gastronomia per esempio”.

Non basta e non può bastare una conferenza a formare sensibilità e coscienze antimafia. Anche l’articolazione dei singoli progetti, rivolti per lo più a  una ventina di ragazzi, non serve, se produce qualche cartellone, qualche coretto con l’immancabile “I cento passi” dei Modena o “Pensa” di Fabrizio Moro, o ancora qualche filmato con immagini prese da Internet. Tali progetti hanno qualche possibilità di risultato se diventano patrimonio e obiettivo di tutti i docenti, momento centrale dei loro piani di lavoro, da coordinare con i contenuti della disciplina che si insegna, in linea con quanto portato avanti dagli altri docenti. E, a parte la buona volontà di pochissimi, moltissimi preferiscono non occuparsi della questione. In ogni caso, anche queste forme spesso improvvisate del “fare antimafia” vanno incoraggiate e messe in atto, perché, diceva Sciascia, “Per sconfiggere la mafia ci vuole un esercito di maestri”. Purtroppo non c’è un esercito, ma ci sono solo alcuni soldati.

L’antimafia sociale.

Nel 2001 nasce a Cinisi il Forum Sociale Antimafia, per ricordare l’anniversario della morte di Peppino Impastato e, nello stesso tempo per creare un coordinamento che possa  mettere assieme vari frammenti della società, soprattutto nell’area antagonista e no global. In quella circostanza comincia a circolare il termine “antimafia sociale”, con riferimento al legame col territorio, con i suoi problemi, con il bisogno di lavoro, con la voglia di sganciarsi dal circuito di controllo mafioso, di riconquistare libertà di pensiero e d’azione. E’ una scelta che comporta un impegno quotidiano, una costante presenza in tutti i momenti e i movimenti di lotta presenti sul territorio, la volontà di costruire una “resistenza” alla mafia  sull’esempio della resistenza antifascista. E così l’antimafia sociale mette a nudo le contraddizioni della società capitalismo, individua lo stretto legame tra mafia e capitalismo, tra borghesia mafiosa e imprenditoria illegale,  diventa lotta in difesa del territorio, e quindi lotta ecologica, oltre che denuncia delle speculazioni. Il riferimento è sempre Peppino Impastato. Le scuole, i posti di lavoro, le fabbriche, i cantieri, la malasanità, il lavoro nero, la corruzione, la raccomandazione, la violenza, la denuncia del privilegio, la lotta contro la droga, la criminalità, l’estorsione, l’inquinamento, diventano punti fermi per un’attività che ha la base nella precisa intenzione di voler vivere in una società diversa fondata sull’uguaglianza.

 

L’antimafia intransigente (talebana)

E’ quella  di chi vede mafia e interessi mafiosi dappertutto, quella di chi su un saluto, su una parentela, su una frase avulsa dal suo contesto, scopre collusioni mafiose con i politici, loschi affari che nascondono chissà quali oscure trame. Si mettono assieme le più disparate notizie che possono avere una qualche connessione, per elaborare analisi indimostrabili, utili comunque a gettar fango sul proprio avversario politico o sul proprio nemico personale. Molti personaggi di primo piano, soprattutto a sinistra, hanno fatto parte di questa antimafia, finendo con il generalizzare in un unico calderone categorie sociali e persone che nulla avevano a che fare con la mafia. Personalmente ritengo di essere appartenuto anche io, in altri tempi, a questa categoria, quando, con Peppino Impastato, ritenevo che “Scudo crociato- mafia di stato” o che ” D.C.+P.C.I= mafia”. C’erano allora certamente molti mafiosi nelle D.C. così come ora nell’UDC e nel PDL, alcuni anche nel PD, senza per questo dover concludere che tutti quelli che fanno politica sono mafiosi o collusi. “Se tutto è mafia niente è mafia”, diceva Michele Pantaleone. E questa sorta di smania di trovare “connessioni mafiose” dovunque, ricorda per certi aspetti l’integralismo dei talebani afghani. Quindi due tipi di “talebaneria”: quella sincera e radicale, chiusa in una completa intolleranza e nel rifiuto totale del sistema, quella che utilizza o strumentalizza presunte collusioni  come mezzi utili a qualche strategia politica o ai fini di carriera, di prestigio personale ecc.

 

L’antimafia mediatica.

Come al solito c’è un’informazione di massa, “ufficiale”, di ciò che è consentito dire, e un’informazione periferica, ristretta, difficile da diffondere, priva di mezzi, ma ricca d’impegno, che stenta a farsi spazio. La prima ha a disposizione i grandi mezzi e le grandi testate: è quella che costruisce eroi, che nasconde criminali politici o ne addita solo alcuni al pubblico ludibrio, in rapporto alle indagini dei magistrati e delle forze dell’ordine o in relazione alle scelte dello schieramento politico per cui lavora il giornalista. In questo contesto tutto sembra in ordine, pare che i principali mafiosi siano stati arrestati e che la mafia stia finendo; non si parla, se non di straforo, dei fili che legano onorevoli e camorristi, impresari e forze istituzionali corrotte. Insomma, il solito mondo dorato dove basta individuare qualche responsabile alla Cuffaro, cui far pagare tutto, affinchè tutto resti com’è sempre stato. Ultimamente, dopo le scoperte su infiltrazioni mafiose all’EXPO di Milano, al Moses di Venezia, al sistema romano definito “Mafia capitale”, alla presenza della mafia e della ndrangheta in Emilia, la notizia appare e scompare, in rapporto ai singoli magistrati che la portano avanti e spesso si è camuffata o riciclata in una più generica “lotta alla corruzione”, con la nomina di un apposito commissario, Cantone, che si trova davanti una legge per il rientro dei capitali all’estero, con una penale del 3% e con diversi altri evasori che mettono al sicuro i propri soldi nelle banche svizzere, in quelle cipriote, ad Antigua e persino in Tanzania.

L’antimafia povera

E’ quella che non ha un quattrino, non ne richiede alle istituzioni, che sono ritenute corrotte e che distribuiscono i fondi pubblici con precise strategie elettorali, è quella i cui militanti mettono mano al portafoglio se c’è qualche spesa o qualche manifesto da pagare. Soprattutto nel campo della comunicazione, si serve dei volantini, del retro bianco dei manifesti per scrivere un messaggio, di qualche scalcagnata radio, come lo era Radio Aut, e di qualche altra scalcagnata emittente televisiva com’è Telejato, di pochi siti e di qualche raro messaggio agli “amici” in rete. Il metodo è quello di Danilo Dolci: abituare la gente ad acquistare un modo di pensare autonomo, a rendersi conto che si trova in un insieme di situazioni che li usa come vittime, come consumatori, come elettori, come destinatari finali di progetti costruiti non per essere al servizio della comunità ma per autoaffermazione e arricchimento. Vent’anni di berlusconismo hanno fatto il deserto e creato generazioni di giornalisti leccaculo, mentre si studiano nuovi meccanismi di controllo, soprattutto sulla pubblicazione delle intercettazioni.

Qualche anno fa c’è voluto il caso del ventilato carcere per Sallusti per porre all’attenzione un problema vecchio, la diffamazione a mezzo stampa e le sue conseguenze penali. Con l’avvertenza che spesso si tratta di persone insospettabili e che sbattere i loro visi in prima pagina può provocare imprevedibili reazioni. Ma il tutto si è sinora risolto in un aumento delle sanzioni pecuniarie nei confronti di chi si macchia di calunnia e della testata responsabile del reato. Così, chi ha alle spalle soldi e finanziatori, può continuare a ingiuriare l’avversario politico, chi sta in piedi per forza, senza un soldo, può cambiare mestiere.

L’antimafia giudiziaria

Alla magistratura è in genere affidato il compito ufficiale, quello più duro e più appariscente, di  fare la lotta contro la mafia. E’ una pagina lunga e tortuosa, se si considera che, solo dai tempi del maxiprocesso sono cominciate a piovere condanne esemplari contro i boss, ma che, ad oggi, tra le varie procure, esistono magistrati fortemente motivati, altri che giocano a rallentare tutto, altri che si mettono in vetrina e si esibiscono , altri che veicolano sottobanco notizie ed elementi d’indagine, per far passare la loro linea giudiziaria, altri  che tendono a stendere su tutto un velo d’oblio, onde garantire il quieto vivere e la riproduzione del sistema secondo canoni e principi secolarmente sedimentati. Quella dei magistrati rischia spesso di sembrare una casta che si copre reciprocamente e che difficilmente mette sotto procedimento  punitivo chi ne fa parte e sbaglia. Fra l’altro, non è mai passata la proposta della responsabilità civile dei giudici, ovvero la possibilità di far pagare il responsabile di un errore giudiziario. Il campo in cui si riscontrano le più forti incongruenze, che spesso diventano ingiustizie, è quello dell’ufficio delle misure di prevenzione, il cui responsabile dispone di un potere enorme,  (si parla di 50 miliardi di euro), lo gestisce  attraverso  amministratori giudiziari, scelti nell’ambito di una ristretta casta, ed ha facoltà di emettere decreti di sequestro e di confisca sulla base di un semplice sospetto, anche nel caso che la vicenda penale dell’indagato si sia conclusa con una piena assoluzione.  Interi patrimoni sono andati in fumo, sia per l’incompetenza o la disonestà degli amministratori , sia per l’ostinazione dei magistrati delle misure di prevenzione a prorogare, anche per decenni, il sequestro, dal momento  che, in caso di restituzione, resterebbe ben poco da restituire. L’amara conclusione, per migliaia di persone gettate in mezzo alla strada da incompetenti amministratori è che con la mafia si lavora, con lo stato no. In questa “casta” non sono compresi i magistrati che rischiano la vita o l’hanno persa, per la loro convinta volontà di andare a fondo, soprattutto in indagini che riguardano gli intoccabili o inconfessabili trattative tra lo stato e potenti gruppi economici , politici militari.

L’antimafia “militare”

Ci riferiamo ai vari corpi, militari e no, cioè ai carabinieri, alla polizia, alla guardia di Finanza, ai vigili urbani e ad altri corpi con poteri di vigilanza e di repressione. Anche qua il discorso presenta due facce, quella di “servi dello stato” morti nell’adempimento del loro dovere, o morti per avere voluto “mettere il naso” in vicende troppo pericolose, anche se di loro competenza, e quella di coloro che incassano il loro stipendio avendo scelto il quieto vivere,  la  verbalizzazione di un’attività più apparente che reale, comunicata con apposite veline agli organi d’informazione e quindi qualche sporadica attività rivolta agli automobilisti non in regola, ai ragazzini con lo spinello o ai piccoli spacciatori, al dirimere liti e contrasti tra familiari e parenti, al chiedere lo scontrino fiscale al ragazzino che ha acquistato una caramella e a presentarsi in pompa magna alle manifestazioni cui sono invitati. Una volta era d’obbligo trovare in prima fila, alle processioni del paese, il sindaco, il prete, il maresciallo, l’onorevole  e il mafioso. Così come era normale l’accordo tra le forze dell’ordine e il mafioso che garantiva una perfetta gestione dell’ordine pubblico, salvo provvedere con i suoi mezzi cruenti se c’era qualcuno che non  rispettava le sue condizioni. Adesso i mafiosi hanno altro cui pensare, hanno mollato il controllo della piccola delinquenza per dedicarsi ad affari più remunerativi,  e, solo quando si sentono “disturbati” offrono qualcosa in pasto agli inquirenti, per continuare ad agire liberamente. A meno che non si trovi, possibilmente nominato di fresco, chi dirige una caserma, deciso a fare rispettare la legge nella zona di sua competenza. Spesso succede o che gli passa o che è trasferito, magari ad un incarico più importante in cui può disturbare di meno.

L’antimafia industriale

E’ più corretto dire “l’antimafia degli industriali”. E’ cominciata nel 2007, quando Ivan Lo Bello, allora presidente di Confindustria Sicilia e attualmente presidente di Union Camere, disse con chiarezza: “Fuori da Confindustria chi paga il pizzo”. Tutti gli industriali    si affrettarono allora a fare dichiarazioni, a sottoscrivere protocolli di legalità, a giurare che non pagavano o, se minacciati di pagare, avrebbero denunciato gli estortori. All’inizio ci furono solo due denunce, ma a poco a poco  il numero è aumentato, tuttavia, chi conosce il funzionamento delle cose in Sicilia, non riesce a liberarsi dal sospetto, per non dire della certezza che c’è chi paga e dice di non pagare. D’altra parte bisogna tener conto che i mascalzoni che chiedono il pizzo sono anche capaci di distruggere, bruciare, danneggiare un’azienda, se il suo titolare non paga, danneggiando alla fine anche se stessi, perchè quando l’economia gira, aumentano, anche per loro, le possibilità di guadagno. In questo contesto alcuni industriali si sono addirittura atteggiati a paladini dell’antimafia, ottenendo finanziamenti per fare corsi di formazione, conferenze, interventi nelle scuole, firmando protocolli e dichiarazioni, con l’appoggio di tutta la classe politica. Non è mancato qualche incidente di percorso, come quello di Roberto Helg che, dopo un’onorata carriera di industriale antimafia, inserito in tutte le associazioni industriali e in vari consigli di amministrazione, è scivolato sulla buccia di banana chiedendo una tangente di  cento mila euro al pasticciere di Cinisi Santi Palazzolo, per rinnovargli il permesso del suo punto vendita all’aeroporto. Altrettanto grave la vicenda del presidente di Confindustria Sicilia, sotto indagine per concorso in associazione mafiosa. Non è mancata qualche vicenda giudiziaria anche per i fratelli Catanzato, uno dei quali è vicepresidente di Confindustria Sicilia, l’altro gestisce la grande discarica che apparteneva al comune di Siculiana e di cui egli è riuscito a impadronirsi. E quello della “monnezza” è un affare cui la mafia non può essere estranea.

 

Altre antimafie

Sono quelle degli appalti per il restauro dei beni confiscati, che prima sono lasciati in deplorevole stato d’abbandono per decenni, poi vengono ripresi e ristrutturati con congrui finanziamenti. Ma anche la stessa assegnazione del bene confiscato, per lo più nelle mani dei sindaci, diventa merce di scambio spesso clientelare, per non parlare di destinazioni che hanno ben poco a che fare con il fine sociale previsto dalla legge Rognoni-La Torre. E infine si può fare antimafia col pennello, con la penna, con la cinepresa, con la musica, con la denuncia degli estorsori, con il rispetto della legalità, con la cultura, con l’onestà, con la lezione, con il rifiuto della corruzione e dell’amicizia funzionale ad ottenere qualcosa in  proprio vantaggio, con il rispetto dell’ambiente, con la solidarietà nei confronti dei propri simili in difficoltà. Insomma, si può fare antimafia  seguendo le regole del vivere civile e facendo venir meno, pezzo dopo pezzo,  il complesso granitico delle altre regole di cui si nutre e con cui si riproduce l’economia e la cultura mafiosa e, su scala più vasta, l’economia nazionale e internazionale, con tutte le sue perversioni, che non hanno nulla da invidiare a quelle mafiose. La strada è lunga, ma i risultati, lavorando sul serio, prima o poi arrivano.

Seguimi su Facebook