10 MAGGIO 1978: i funerali di Peppino

 

Come ogni mattina, mi reco alla spiaggia per dare un’occhiata al mare. Le onde si strusciano pigre e sonnolente sulla battigia. Cerco di leggere, in questo lento andirivieni, quello che può essere successo. Di certo l’altra sera, lasciandomi davanti casa, Peppino avrà fatto questa strada e si sarà fermato, come spesso faceva, qui. Lo vedo. Spegne il motore. Scende dalla macchina per sentire la sabbia sotto i piedi. In cielo svanisce l’ultima striscia di tramonto. Dentro il sonno del mare nero si intravede un  impercettibile movimento d’occhi, quelli dei suoi assassini che stanno preparando l’agguato. Tracce di luce, quasi briciole di stelle allo specchio, si impigliano come alghe tra i suoi capelli. E’ il suo momento magico. Si sveste di tutto, del peso della giornata, della radio, dei compagni, del fumo della sigaretta. La rigenerazione si compie tra aliti e  respiri, risata dell’onda breve, ubriacatura di odori, fruizione di suoni nel circolo del sangue, immersione definitiva. Tutto è incompiuto dietro il muro dell’attesa. Nel  gorgo sparisce l’incomprensione del giorno e ogni mistero, si estende una piatta calma, senza illusione d’alba. Ora ne sono certo: è qui che l’hanno preso, quando era del tutto indifeso e rilassato.

Vado a Cinisi a cercare i compagni. Decidiamo di andare a fare un sopralluogo dov’è stato commesso il delitto. Agostino, che fa il falegname, ha preparato un grande cartello con la scritta:

“Giuseppe Impastato, assassinato dalla mafia qui”.

Vito porta due secchi di cemento e l’acqua per impastarlo. Piantiamo il tabellone proprio a due passi dal binario e poi cominciamo la nostra triste ricerca. Qua e là qualche pezzetto di carne, frammenti di ossa e di vestiti, un pezzo della montatura dell’occhiale, la scheggia di legno di un sandalo: raccogliamo il tutto in tre sacchetti di plastica.

Pino Manzella va a conservare i miseri resti raccolti nella sua casa di campagna. Torniamo in paese. I commenti della gente, in piazza o al bar, specie davanti al manifesto, sono ispirati a una sorta di fastidio:

 -“Ma chi vannuarriminannu ancora merda ncannistru? Unni vonnuarrivari? Un ci n’abbastauunu? N’hannuammazzari a qualchi n’autru?”  (Cosa vanno smuovendo ancora merda nel canestro? Dove vogliono arrivare? Non gli è bastato uno? Devono ucciderne qualche altro?)

 A casa di Peppino si susseguono le visite, qualcuna delle quali particolarmente significativa. Arriva Peppino Impastato, cognato di Felicia,detto “don Peppino Sputafuoco”, componente organico della cosca Badalamenti:

-“Mi dispiace, Felicia. Comunque, cerca di stare tranquilla, pensa a Giovanni, digli di starsene buono che ci penso io ad aggiustare tutto. E non pensare, come ti vogliono far credere questi quattro picciuttazzi, che sia stato Tano Badalamenti: Tano aveva troppo rispetto per Luigi, non avrebbe mai fatto una cosa del genere”.

Felicia tira fuori tutta la sua rabbia:

-“Fuori di qui. Tu e gli altri tuoi belli amici siete stati tutti d’accordo, avete accettato senza dire mezza parola la condanna a morte di mio figlio. Fuori e non mettere più piede in questa casa”.

Arriva pure un inviato di Procopio Di Maggio, il boss nemico da sempre di Badalamenti e fa sapere a Felicia che, se e quando lei vuole, giustizia sarà fatta e Peppino sarà vendicato. Anche qua Felicia non è tenera:

-“Con la vostra giustizia pulitevi il culo, non so che farmene. Nessuno mi ridarà Peppino vivo. Spero solo nella giustizia di Dio”.

A parte un po’ di animazione davanti alla casa di Peppino, la mattinata trascorre in una sorta di calma surreale, quasi si fosse data in giro una parola d’ordine, quella di dimenticare tutto, di comportarsi come se nulla fosse accaduto.  E’ nel primo pomeriggio che cominciano a notarsi strani movimenti: dal fondo del Corso arrivano a gruppi di giovani,  col codino, con lo zainetto in spalla, barba e capelli incolti, vestiti quasi da straccioni, chi con bastoni avvolti da bandiere rosse. Si tratta di un flusso  crescente, particolarmente più intenso nell’orario d’arrivo dei treni, di una marea imprevedibile di “picciotti” incazzati. Arrivano, armati di bandiere rosse, anche i compagni di Lotta Continua di Castellammare del Golfo, con Paolo  Arena che spinge Ciccio sulla sua carrozzella a rotelle, arrivano i compagni di Democrazia Proletaria di Partinico, Gino Scasso, Siro, Simone, Bastiano, i DP di Palermo con Gaspare Nuccio, Franco Piro e un ragazzotto robusto, Maurizio Toscano, che sembra il più incazzato di tutti. Vedo Pino Dicevi di Montelepre, Pasquale D’Aguanno e Tanino Schillaci, vecchi compagni PCD’I ml, dei Cantieri Navali, che non incontravo dal ’68, ma anche Filippo Giunta con alcuni operai della Sicilfiat di Termini Imerese, i lavoratori di Città del Mare di Terrasini, alcuni dipendenti dell’aeroporto di Punta Raisi e tanti altri che non mi sarei mai aspettato di incontrare. Mi incuriosisce un ometto in sandali e polo, dall’aria indifesa: mi dicono che è un giudice della Procura, si chiama Peppino Di Lello.

E’ in quel momento che io e tutti i miei compagni abbiamo l9 funerale_03a sensazione di non essere più soli, di non essere più vittime costrette a sopportare la violenza della mafia e l’ingiustizia dello stato. Malgrado lo sfascio del ’77 il movimento non è morto, i compagni sono qui a volere verità e giustizia, ad accompagnare uno di loro per l’estremo saluto.

Comincia ad avvertirsi un po’ di movimento quando arriva la bara con i resti di Peppino. E’ una pioggia di garofani che arrivano dall’alto, pesanti come pietre e leggeri come farfalle. Sono il primo a rompere il silenzio gridando: -“Peppino è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai”. Gli altri mi riprendono. Il corteo si snoda. Davanti Filippo e Mimì portano uno striscione improvvisato, dove, con una bomboletta è stato scritto: “Con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo”. Segue la bara, portata a turno dai compagni in lacrime, dietro Felicia, sua sorella Fara, Felicetta e Giovanni, che di colpo alza il pugno, seguito da tutti. Cominciano una serie di slogan:

-“Badalamenti boia”,

-“Badalamenti non lo scordare, abbiamo Peppino da vendicare”,

-“Per un compagno ucciso nessun lamento, linea di condotta combattimento”,

-“Per un compagno ucciso non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto”.

Un migliaio di persone danno vita alla prima vera manifestazione antimafia di massa della storia siciliana. Il corteo attraversa il corso, sotto gli occhi allibiti dei passanti, le donne preferiscono entrare e chiudere la porta di casa. Un po’ staccato, quasi vergognoso, don Peppino Impastato, che ritiene doveroso dare l’addio al nipote. Una messa che, per nulla al mondo Peppino avrebbe voluto,  poi verso il cimitero: davanti all’ingresso attacco a cantare l’Internazionale, che diventa un coro d’addio. Stefano Venuti, il rappresentante più autorevole del PCI di Cinisi, dice poche parole:

-“Peppino, avrei dovuto essere io al tuo posto. Che altri, molti altri, possano continuare sulla tua strada”.

(Foto di Letizia Battaglia: accanto a Giovanni Impastato, la madre Felicia, la zia Fara e, a sinistra, Felicetta, moglie di Giovanni) 

(dal libro di Salvo Vitale “Cento passi ancora” edizioni Rubbettino, pagg. 24-27)

 

 

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