Un’intervista a Salvo Vitale in “Odysseo”

Il mio compagno Peppino: Cento passi ancora…

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Salvo Vitale, amico fedele e compagno, in innumerevoli battaglie, di Peppino Impastato, il giovane politico attivista siciliano che il 9 maggio 1978 fu brutalmente assassinato nelle campagne di Cinisi

“E diciamolo una volta per tutte che noi siciliani la mafia la vogliamo. Ma non perché ci fa paura, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace. Noi siamo la mafia. E tu, Peppino, non sei stato altro che un povero illuso, tu sei stato un ingenuo, sei stato un nuddumiscato cu niente”: è una parte del monologo con il quale si conclude il celebre film I Cento passi”. Quanto oggi, in base alla sua esperienza di vita, c’è di vero in queste parole?                                                                                                                

I cento passi è un film bellissimo che è servito a far conoscere la storia di Peppino Impastato al grande pubblico, ma non bisogna perdere di vista che si tratta di un film, e quindi di una ricostruzione “a tavolino”, di una fiction verosimile in diversi passaggi, ma non vera. Così come il discorso sulla “bellezza”, anche quello fatto alla radio è una felice trovata di Claudio Fava, che ha scritto la sceneggiatura. Puoi trovare una ricostruzione dell’originale discorso nel mio libro Cento passi ancora.

Se condivido? Solo in parte. Escludo la generalizzazione, perché ci sono stati e ci sono tanti siciliani che la mafia non la vogliono: alcuni hanno pagato con la vita, altri hanno preferito emigrare, altri rimangono a dare il loro contributo di lotta contro il fenomeno. Esiste invece un’altra parte di gente che con la mafia ci vive, trova lavoro, fa carriera, si arricchisce, non ha scrupoli né rispetto per gli altri. È la cosiddetta classe padrona che include una parte consistente di quella che Mario Mineo e Umberto Santino chiamano “borghesia mafiosa” e che associa la sua fortuna alla politica, alla corruzione, al lavoro nero, alla violenza. Questa è ancora oggi presente, viva e vegeta, si accaparra delle risorse della comunità, ruba il futuro ai giovani o li costringe a piegarsi ai suoi ricatti. C’è poi un aspetto sociologico, quello che alcuni indicano come “cultura mafiosa”, cui la frase sembra fare riferimento, che ha lontane radici e che è un aspetto dell’ideologia dominante, quella del potere, introiettato e fatto proprio anche dalle classi sociali più deboli. Non so sino a che punto questo è mafia, e non rassegnazione, accettazione passiva, paura, bisogno di sopravvivenza, furbizia, ovvero caratteristiche riscontrabili in ogni regione d’Italia.

Inizialmente l’omicidio di Peppino Impastato fu fatto passare per un suicidio: consuetudine che ha purtroppo riguardato altre vittime, si pensi all’urologo Attilio Manca. Come renderebbe attuali oggi, nell’odierno contesto sociale, le battaglie di Impastato? Qual è il ricordo più bello che conserva della sig.ra Felicia?

Mi hai richiamato alla mente la figura di Cosimo Cristina, altro esempio di giornalista “suicidatosi”, secondo le indagini, nel 1960. Il suicidio è la forma più semplice per chiudere il problema ed evitare di indagare su piste scomode. Nel caso di Peppino, non è stato facile smontare questa ipotesi, comunque alternativa a quella dell’attentato terroristico. Solo la presenza di un gruppo di compagni organizzati e la grande voglia di giustizia di mamma Felicia sono riusciti a dare volto agli assassini e a mandarli sotto processo. Ma ci sono voluti 22 anni. La ricordo, durante un 9 maggio, affacciarsi alla sua porta di casa e, davanti al corteo che gridava “Felicia, Felicia”, alzare il pugno. Nel libro che ti ho citato puoi trovare altri ricordi.

Leonardo Sciascia distingueva i carrieristi ed i professionisti dell’antimafia. Come definirebbe oggi Lei, partendo dalla sua militanza priva di tentennamenti, la lotta alla mafia? Quali le modifiche da apportarvi?                                          

Oggi è di moda infierire contro l’antimafia, sentenziare che è tutto un fallimento, un affare economico, una esibizione coreografica, uno strumento di affermazione politica e quant’altro. Accanto a questi aspetti, ce ne sono molti altri, che vanno dal coraggio di fare informazione corretta e non ruffiana, a quello di andare a fondo in una indagine, anche a costo di rimetterci la carriera, al rifiuto dell’estorsione, al rispetto delle regole della società, alla vicinanza con i drammi di altri esseri umani, all’impegno di alcuni insegnanti nelle scuole, che, con tutti i suoi limiti, lascia sempre qualche traccia, alla scelta di una dimensione politica di lotta contro le ingiustizie, lo sfruttamento, le strategie di conservazione del potere. Non credo che occorrano modifiche, se non quelle che possono essere richieste dalle situazioni in cui ci si trova. Una modifica radicale andrebbe invece apportata alla legge sulle misure di prevenzione e quindi sull’utilizzo dei beni sequestrati e confiscati ai mafiosi o a quelli presunti tali. Ma è un discorso troppo lungo.

Oggi ricordiamo tanti uomini, che però in vita furono dolosamente isolati dallo Stato e dalla società civile. Quale il suo pensiero rispetto al processo sulla trattativa Stato–Mafia e quindi relativamente alla situazione, di forte pericolo, nella quale versa il dott. Nino Di Matteo?                                                

Purtroppo si diventa eroi dopo che si è morti a seguito della coerenza con le proprie idee e del proprio lavoro svolto nella società. Sono dell’avviso che non ci siano eroi, ma uomini normali, che si sono trovati a vivere accanto a chi questa normalità l’ha stravolta con il ricorso alla violenza. L’isolamento è una condizione in cui ci si trova a vivere quando ci si estranea dal contesto sociale, del quale non si condividono le distorsioni, senza cercare e trovare persone con cui condividere le tue idee e la tua lotta. Anche a me capita spesso di sentirmi solo e “straniero”, ma cerco di trovare “condivisioni” giornalmente, comunicando con i mezzi di cui dispongo. Peppino non era solo, come qualcuno ha scritto. Falcone, dopo il maxi-processo diceva a Borsellino: “La gente comincia a fare il tifo per noi”. Di Matteo è uno che fa il suo lavoro correttamente, in mezzo a tanti che preferiscono ignorare, dimenticare, far finta di niente. Purtroppo non c’è attorno a lui la totale vicinanza degli Organi dello Stato, che lui ha scelto di servire “normalmente”. Sulla trattativa, sai meglio di me che è sempre esistita, dall’Unità d’Italia, e che continua ad esistere, poiché ci sono aspetti dei vari pezzi del potere che ci sfuggono, dimensioni nascoste e strategie sotterranee per le quali la “democrazia” è un alibi da far credere agli allocchi.

Le regalo una scatola di colori: quale colore maggiormente rappresenta, rispettivamente Lei ed il suo compagno Peppino?

Peppino amava vestirsi di nero, ma non so se era questo il suo colore preferito. Per me, ma credo anche per lui, è indiscutibilmente rosso vivo.

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