In ricordo di Rocco Chinnici

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Chinnici e scorta

Nacque a Misilmeri  il 19 gennaio 1925 . Il 19 gennaio è anche la data di nascita di Paolo Borsellino.  La sua carriera si svolse interamente tra Palermo e Trapani: in quest’ultima città e nella contigua Partanna fece i suoi primi passi di magistrato, prima di essere trasferito a Palermo, dove divenne capo dell’Ufficio Istruzione. A lui che si devono tre grandi intuizioni che hanno rivoluzionato i metodi e il modo di agire contro la mafia:

-La creazione del pool antimafia. Del primo gruppo fecero parte i giudici Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta e, per esso lavorò anche Ninni Cassarà. Il pool agiva sulla base di una semplice considerazione, ovvero che il lavoro di gruppo è  più facile a svolgersi, in gruppo si lavora meglio che individualmente, e crea una conoscenza collettiva e condivisa che rimane tale anche nel caso che qualcuno dei suoi componenti dovesse venir meno.

-L’individuazione e l’aggressione ai patrimoni dei mafiosi: questi costituiscono uno dei motivi della persistenza della mafia, poiché l’accumulazione di denaro attraverso la violenza è il fine ultimo che guida le azioni della criminalità organizzata: colpire i mafiosi  nelle loro ricchezze è il sistema più concreto per ridurli all’impotenza e isolarli.

-Il lavoro nelle scuole. Chinnici fu uno dei primi magistrati a dedicare parte del proprio tempo a interventi con gli studenti, nella convinzione che  il momento della formazione  sia prezioso e fondamentale  se si vuole rimettere in discussione la subcultura  mafiosa, che spesso accompagna   le prime fasi della crescita, trasmessa sia dai nuclei familiari, che dall’ambiente circostante.

-L’analisi sulle origini e sullo sviluppo della mafia. Smentendo una serie di storici che facevano risalire il fenomeno ai “bravi”  nel periodo della dominazione spagnola, alla setta dei Beati Paoli, al permanente feudalesimo diffuso nelle campagne siciliane, Chinnici, nella sua relazione in occasione dell’incontro di studio per magistrati organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura a Grottaferrata il 03-07-1978 disse: “Riprendendo le fila del nostro discorso, prima di occuparci della mafia del periodo che va dall’unificazione del Regno d’Italia alla prima guerra mondiale e all’avvento del fascismo, dobbiamo brevemente, ma necessariamente premettere che essa come associazione e con tale denominazione, prima dell’unificazione, non era mai esistita in Sicilia”, e più oltre aggiunge: “La mafia … nasce e si sviluppa subito dopo l’unificazione del Regno d’Italia”.» Il che offre una dimensione più realistica per studiare sotto una prospettiva diversa la spedizione garibaldina, l’invasione piemontese, la feroce repressione del dissenso, definito sbrigativamente “brigantaggio” e il dilatarsi della forbice del sottosviluppo meridionale dopo l’unità.

 

Nel novembre del 1978 gli capitò tra le mani il caso di Peppino Impastato, ucciso nel maggio dello stesso anno. Il giudice Signorino aveva condotto le indagini condividendo all’inizio l’impostazione data dalle forze dell’ordine, in particolare dall’allora tenente Subranni, ovvero che si trattasse di un attentato terroristico o, tuttalpiù di un suicidio. Pare che, dopo una telefonata  di Gaetano Costa, allora capo della Procura,  Signorino si fosse deciso ad affrontare il caso per quello che era, ovvero un delitto  ordito dalla mafia di Cinisi. Di fatto, nel novembre del ‘78  il giudice depositava gli atti, classificando il caso come “omicidio ad opera di ignoti”. Chinnici, allora consigliere capo, riservava a se stesso lo sviluppo delle indagini su Impastato  e tale scelta cambiava interamente il rapporto con i compagni di Peppino, i quali, dopo  alcuni mesi di difficili contatti con coloro che li avevano inquisiti come possibili soci di un terrorista, assunsero un rapporto di piena collaborazione, inviando al giudice un documento in cui si indicavano tutti i possibili punti di ricerca sui quali non s’era mai indagato. Questo documento ricopre un’importanza notevole nella storia della magistratura siciliana: è la prima volta che un gruppo di persone, inizialmente inquisite, si contrappone alle forze dell’ordine nella conduzione delle indagini, individua  gli elementi fondamentali che stanno alla base del delitto, predispone e offre al magistrato prove e indizi. Sulla base di quelle indicazioni il magistrato diede una svolta decisa alle indagini, interrogando Giovanni Riccobono, al quale in cugino Amenta aveva detto di non andare a Cinisi la sera del delitto,  incriminando per falsa testimonianza i cugini di Riccobono, inviando una comunicazione giudiziaria a Giuseppe Finazzo, detto “u Parrineddu” , presunto esecutore del delitto e titolare di una cava di pietrisco da cui probabilmente era uscito il tritolo per il delitto e infine, mandando i periti del tribunale a indagare su abusi edilizi consumati con la complicità dell’Ufficio Tecnico di Cinisi. Il documento non è stato mai trovato né tra le carte processuali, né tra le carte di Chinnici, il quale non lo avrà reso noto forse per proteggere i compagni di Peppino che glielo avevano consegnato. Probabilmente sarà saltato in aria con la borsa che il giudice si portava appresso al momento dell’attentato.

 

Di Rocco Chinnici si ricorda la sua grande umanità, pari alla severità con cui istruiva i processi contro i mafiosi, la sua capacità di entrare all’interno dell’animo di coloro che stava interrogando e di trattare con riservatezza gli elementi delle sue indagini. Nel 1986 il giornalista Alberto Spampinato, nel “Calendario del popolo”, riferiva che, in un colloquio con Chinnici, a proposito del “caso Impastato”, questi gli aveva detto: “Ce la metto tutta. E’ come se avessero ucciso mio figlio”.

E’ davvero emblematico un pensiero espresso da Chinnici e al quale si sono ispirati tutti i giudici che ne hanno raccolto l’eredità: «La cosa peggiore che possa accadere è essere ucciso. Io non ho paura della morte e, anche se cammino con la scorta, so benissimo che possono colpirmi in ogni momento. Spero che, se dovesse accadere, non succeda nulla agli uomini della mia scorta. Per un Magistrato come me è normale considerarsi nel mirino delle cosche mafiose. Ma questo non impedisce né a me né agli altri giudici di continuare a lavorare». Purtroppo la sua era una paura fondata.

Aveva la precisa convinzione che, all’interno del palazzo di giustizia esistessero talpe, funzionari, legali e magistrati al servizio della mafia. Scriveva di suo pugno i verbali, evitando di ricorrere al segretario. Nel suo diario, pubblicato dal Giornale di Sicilia dopo la sua morte e troppo frettolosamente tolto dalla circolazione, ci sono una serie di considerazioni e riflessioni amare sugli intrecci tra alcuni magistrati suoi colleghi e i mafiosi.

Nel suo libro “Mafia” Enzo Guidotto racconta che, quando Chinnici e Gaetano Costa dovevano scambiarsi delle idee o parlare di cose riservate, si mettevano in ascensore pigiando più volte i pulsanti del sali e scendi, mentre comunicavano.

 

Rocco Chinnici fu ucciso il 29 luglio 1983 con una Fiat 127 imbottita di esplosivo davanti alla sua abitazione in via Pipitone Federico a Palermo, all’età di cinquantotto anni. Morirono con lui nell’esplosione il carabiniere Mario Trapassi, l’appuntato Salvatore Bartolotta, componenti della  sua scorta, e il portiere dello stabile di via Pipitone Federico Stefano Li Sacchi. Ad azionare il detonatore che provocò l’esplosione fu il killer mafioso Antonino Madonia.

Senza nulla togliere a Falcone e a Borsellino e ad altri giudici vittime della mafia, possiamo considerarlo la più alta espressione della magistratura in Sicilia.

 

Testo del documento scritto da Salvo Vitale, per la redazione di Radio Aut, e consegnato a Rocco Chinnici. Di questo documento non s’è trovato traccia ed è possibile che Chinnici lo tenesse nella sua borsa, distrutta dall’esplosione. Il documento è pubblicato nel libro “Peppino Impastato, una vita contro la mafia” ed. Rubbettino 2008”, con questa nota:  “Il documento costituisce una testimonianza unica nella storia della giurisprudenza siciliana: con tutti i limiti derivanti dalla propria posizione di “esterni” i redattori di Radio Aut si sostituiscono agli investigatori, data l’inconsistenza del lavoro di costoro, e propongono al giudice un piano di lavoro e di conduzione delle indagini. Va dato atto al giudice Chinnici di averlo gelosamente conservato, anche per tutelare la sicurezza di chi lo aveva scritto, e di avere preso in considerazione parecchi degli elementi d’indagine indicati”. (pag.219)chinnici-rocco-eff-c-ansa

Promemoria

All’attenzione del giudice Chinnici

 

“Pur non volendo entrare nel merito delle sue competenze, sottoponiamo all’attenzione della S.V. alcuni punti ai quali, a nostro parere, nel corso delle indagini, non si è prestata sufficiente attenzione:

1) La torre di controllo dell’aeroporto dista dal luogo del delitto circa 500 metri. L’onda di luce, o la sua rifrazione sulla vicina montagna, causata dall’esplosione, avrebbe dovuto, necessariamente, essere notata dalla torre: riteniamo occorra una testimonianza degli addetti al lavoro e il prospetto del traffico aereo della sera dell’8-5-78, comprese le condizioni di visibilità, nel caso che l’esplosione fosse avvenuta in coincidenza con la partenza di qualche aereo che ne abbia potuto, in parte, coprire l’esplosione;

2) Tabella del traffico ferroviario dell’8-5 per delimitare il tempo intercorso dal passaggio dell’ultimo treno a quello del mezzo che ha rilevato la rotaia divelta;

3) La mattina del 9-5 i carabinieri di Terrasini si presentavano alla sede di Radio Aut aprendo con una chiave, che affermavano essere quella dell’Impastato. Siamo tutti certi che Peppino teneva questa chiave nella tasca destra dei pantaloni, separata dalle altre. Come mai i carabinieri sapevano che quella chiave isolata era quella della radio? Inoltre, la persona che ha raccolto i resti, tal Liborio, necroforo comunale, disse in giro che i carabinieri gli avrebbero detto di cercare in un determinato posto, dove, tra le pietre, egli avrebbe trovato la chiave. Riteniamo opportuna una verifica.

4) Il casello ferroviario dista circa 500 m. dal luogo dell’esplosione: come mai il casellante non ha sentito niente? Riteniamo opportuno risentire la versione di costui e, se fosse necessario, ripetere l’esplosione nello stesso posto, onde accertare un’eventuale falsa testimonianza;

5) Se è vero che l’esplosivo era del tipo DNT, usato nelle cave, controllare i registri di carico e scarico d’esplosivo della cava di pietrisco di Manuele Finazzo, distante poco meno di 600 m. dal luogo dell’esplosione, delle cave di sabbia dei D’Anna, noti mafiosi di Terrasini, di Caruso, anch’egli di Terrasini, nonché delle cave di pietrisco di Giacomo Impastato e di Pastorelli, in contrada Cippe, vicino Montelepre;

6) Prendere atto della versione di Giovanni Riccobono, venuto quella sera da Palermo, dove abitava nei giorni lavorativi, per avvisare Peppino Impastato che “doveva succedere qualcosa di grosso a Cinisi”, stando all’avvertimento fattogli dal cugino, e, di conseguenza, interrogare quest’ultimo: la pista potrebbe rivelarsi fondamentale;

7) Prendere atto della testimonianza di Vito Lo Duca che, quella sera, in macchina con Matteo Giammanco, è stato seguito, per parecchio tempo, dalla macchina di Pizzo Salvatore, abitante in via Caruso a Cinisi, indagando su eventuali connessioni dello stesso con ambienti mafiosi;

8) Circa dieci giorni prima del delitto, il motore della macchina di Peppino aveva subito uno strano guasto, dovuto all’immissione di zucchero e nafta nel serbatoio della benzina. Riteniamo

9) opportuno sentire, in merito, il sig. Saverio Orlando, (via Nazionale, Cinisi), che è il meccanico che ha riparato la macchina;

10) Prendere atto del bollettino “Dieci anni di lotta contro la mafia” edito dalla Cooperativa editoriale Centofiori, e, in particolare, dei volantini scritti da Pep¬pino ed ivi pubblicati a p. 10, con specifiche accuse ad alcuni individui e verso alcune speculazioni;

11) Prendere atto di alcuni passaggi della trasmissione “Onda Pazza”, di cui consegniamo i nastri, e del modo in cui erano ridicolizzate le figure di alcuni mafiosi ed evidenziate alcune speculazioni, in particolare l’approvazione, in via segreta, dei due progetti del palazzo a cinque piani del Finazzo, che gestiva, assieme al citato fratello Manuele, la cava, e del progetto di costruzione di 600 mq. Di seminterrati al camping z 10. Verificare la delibera del Consiglio Comunale;

12) Prendere atto dell’agenda di Peppino e della sua richiesta di comizio per il 12-5, presentata ai carabinieri;

13) Prendere atto degli appunti di Peppino, presumibilmente la scaletta di un comizio, in cui si denunciano alcune speculazioni dell’amministrazione locale;

14) Prendere atto delle foto della mostra del 7-5 e dei fatti ivi denunciati: tale mostra precede di un giorno l’assassinio;

15) Testimonianze sui contenuti dei comizi di Impastato;

16) Prendere atto delle strane effrazioni ad opera di ignoti, in cui niente è stato portato via, verificatesi giorni dopo l’omicidio, nelle case di campagna di Benedetto Cavataio, di Giuseppe Manzella, di Ferdinando Bartolotta e, per ben cinque volte, a casa della sig.ra Fara Bartolotta, presso la stazione, domicilio abituale di Peppino. Con ogni probabilità chi ha scassinato cercava qualche eventuale dossier scritto da Peppino, sulla cui esistenza a Cinisi si era sparsa la voce;

17) Indagare sulle forniture mafiose fatte ai cantieri Mazzi e Romagnoli, per la costruzione dell’autostrada Punta Raisi-Mazara: in ciò sono implicati il solito Finazzo, i soliti D’Anna, Caruso, Impastato, Pastorelli: con quest’ultimo sembra lavori anche un geometra-capo dell’ANAS, Pino Lipari, azionista, nello stesso tempo, del villaggio turistico Z 10 e figlioccio del defunto mafioso Sarino Badalamenti, oltre che visitatore assiduo del di lui cugino Gaetano. Tali attività speculative sono state oggetto di denuncia in pubblici comizi, in particolare dell’ultimo, tenuto domenica 6-5 da Impastato;

18) Accertare la provenienza del pezzo di tela di sacco, sporco di sostanza gelatinosa di colore argenteo, in cui presumibilmente era avvolto l’esplosivo, telo ritrovato e consegnato ai carabinieri da alcuni compagni di Peppino (Faro di Maggio ed altri).

Conclusione: la presenza, scontata, di Peppino al Consiglio Comunale, sarebbe, senza dubbio servita a documentare, con dati più precisi, le accuse sulla gestione amministrativa locale, dati i suoi poteri di consigliere. Dette accuse, formulate durante i comizi o per via radio, potevano essere anche ignorate dalle autorità, una volta ufficializzate in Consiglio comunale con interrogazioni, interpellanze, interventi, avrebbero inevitabilmente avuto ben altra efficacia: infatti, sulle stesse, né il Consiglio comunale né le autorità avrebbero potuto omettere un’indagine formale: Peppino Impastato consigliere comunale sarebbe stato ben più pericoloso di Peppino Impastato semplice militante comunista. Egli è stato ucciso proprio nel momento in ci stava conquistandosi quel consenso popolare, confermato dalla numerosa presenza di ascoltatori ai suoi comizi e dai risultati della domenica successiva alla sua morte, quando, com’è noto, la lista di Democrazia Proletaria ha ottenuto il 6,5% di voti e Impastato ha riportato il maggior numero di suffragi, risultando eletto.

Per qualsiasi altra delucidazione i redattori di Radio Aut e i militanti di D.P. di Cinisi si ritengono a disposizione della S.V.                  La Redazione di Radio Aut”

 

 

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