I funerali di Peppino

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A parte un po’ di animazione davanti alla casa di Peppino, la mattinata trascorre in una sorta di calma surreale, quasi si fosse data in giro una parola d’ordine, quella di dimenticare tutto, di comportarsi come se nulla fosse accaduto.  E’ nel primo pomeriggio che cominciano a notarsi strani movimenti: dal fondo del Corso arrivano a gruppi di giovani,  col codino, con lo zainetto in spalla, barba e capelli incolti, vestiti quasi da straccioni, chi con bastoni avvolti da bandiere rosse. Si tratta di un flusso  crescente, particolarmente più intenso nell’orario d’arrivo dei treni, di una marea imprevedibile di “picciotti” incazzati. Arrivano, armati di bandiere rosse, anche i compagni di Lotta Continua di Castellammare del Golfo, con Paolo  Arena che spinge Ciccio sulla sua carrozzella a rotelle, arrivano i compagni di Democrazia Proletaria di Partinico, Gino Scasso, Siro, Simone, Bastiano, i DP di Palermo con Gaspare Nuccio, Franco Piro e un ragazzotto robusto, Maurizio Toscano, che sembra il più incazzato di tutti. Vedo Pino Dicevi di Montelepre, Pasquale D’Aguanno e Tanino Schillaci, vecchi compagni PCD’I ml, dei Cantieri Navali, che non incontravo dal ’68, ma anche Filippo Giunta con alcuni operai della Sicilfiat di Termini Imerese, i lavoratori di Città del Mare di Terrasini, alcuni dipendenti dell’aeroporto di Punta Raisi e tanti altri che non mi sarei mai aspettato di incontrare. Mi incuriosisce un ometto in sandali e polo, dall’aria indifesa: mi dicono che è un giudice della Procura, si chiama Peppino Di Lello.

E’ in quel momento che io e tutti i miei compagni abbiamo la sensazione di non essere più soli, di non essere più vittime costrette a sopportare la violenza della mafia e l’ingiustizia dello stato. Malgrado lo sfascio del ’77 il movimento non è morto, i compagni sono qui a volere verità e giustizia, ad accompagnare uno di loro per l’estremo saluto.

Comincia ad avvertirsi un po’ di movimento quando arriva la bara con i resti di Peppino. E’ una pioggia di garofani che arrivano dall’alto, pesanti come pietre e leggeri come farfalle. Sono il primo a rompere il silenzio gridando: -“Peppino è vivo e lotta insieme a noi, le nostre idee non moriranno mai”. Gli altri mi riprendono. Il corteo si snoda. Davanti Filippo e Mimì portano uno striscione improvvisato, dove, con una bomboletta è stato scritto: “Con le idee e il coraggio di Peppino noi continuiamo”. Segue la bara, portata a turno dai compagni in lacrime, dietro Felicia, sua sorella Fara, Felicetta e Giovanni, che di colpo alza il pugno, seguito da tutti. Cominciano una serie di slogan:

-“Badalamenti boia”,

-“Badalamenti non lo scordare, abbiamo Peppino da vendicare”,

-“Per un compagno ucciso nessun lamento, linea di condotta combattimento”,

-“Per un compagno ucciso non basta il lutto, pagherete caro, pagherete tutto”.

Un migliaio di persone danno vita alla prima vera manifestazione antimafia di massa della storia siciliana. Il corteo attraversa il corso, sotto gli occhi allibiti dei passanti, le donne preferiscono entrare e chiudere la porta di casa. Un po’ staccato, quasi vergognoso, don Peppino Impastato, che ritiene doveroso dare l’addio al nipote. Una messa che, per nulla al mondo Peppino avrebbe voluto,  poi verso il cimitero: davanti all’ingresso attacco a cantare l’Internazionale, che diventa un coro d’addio. Stefano Venuti, il rappresentante più autorevole del PCI di Cinisi, dice poche parole:

-“Peppino, avrei dovuto essere io al tuo posto. Che altri, molti altri, possano continuare sulla tua strada”.

                         dal libro di Salvo Vitale “Cento passi ancora” Edizioni Rubbettino 2014

Nota bene: la terza foto, in cui Mimì Di Maggio e Filippo Cusumano reggono uno striscione, è stata scattata da Franco Zecchin. Credo siano sue anche le altre due foto.

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