ADDIO A GIUSEPPE RUFFINO

Ruffino

 

 Giuseppe mi legano una serie di momenti passati assieme, dai tempi in cui nel 1968 contestavamo, con scritte sui muri,  la politica repressiva del governo o boicottavamo  la festa degli universitari terrasinesi che pensavano a divertirsi  mentre i loro compagni erano impegnati nell’occupazione delle facoltà,  alla costante collaborazione con il giornale Terrasini oggi . Lo ricordo per la sua professionalità e coerenza, sia nel campo della politica, sia in quello dell’informazione che in quello dell’insegnamento , dove ha profuso le sue energie di educatore. Credo che il modo migliore per ricordare il mitico “Pungolin” sia quello di pubblicare un ricordo che mi aveva lasciato, su Peppino Impastato, che sarà presente in un libro di imminente pubblicazione.

                                                              Cala Rossa libera !

                                                             (Giuseppe Ruffino)

1

La rivolta dell’acqua in “Somalia”

L’acqua corrente non era mai arrivata nel quartiere della Somalia, il quartiere dei braccianti. La stessa acqua cioè, che, invece, usciva a frùsciu dai cannuoli [abbondante (dai) rubinetti] dei signori.

Signori …! Signori per modo di dire, poiché, fin da molto prima dell’estate del 1967, arrivava già in tutto il resto del paese, fino alla marina, senza distinzione di classe e di censo.       In tutte le case, dunque, escluse quelle dei braccianti. Infatti, costoro, dopo anni di inutile attesa, soltanto in base all’uso o al non uso di essa avevano finito con l’indicare chi fosse “signore” e chi  “proletario”.         Va detto poi (la qualcosa non è di poco conto) che, il giorno in cui fuoriuscì dai cannuoli dei proletari bella, preziosa e pura, non accadde in virtù di un “diritto costituzionale”, ma per conquista delle donne dopo breve e intensa lotta.

Peppino, quando la bufera passò, con una delle sue solite pennellate la ricordò come “U rrivùgghju rî pignati” [il ribollio delle pentole]. Oggi pochi ricordano o sanno che fu, in assoluto, la protesta più espressiva e creativa della storia civile di Terrasini

Il fatto è che, di anno in anno, di elezione in elezione, gli amministratori comunali di turno gliel’avevano fatta bere in cartolina quell’acqua, gliel’avevano fatta sgorgare sotto gli occhi, sull’uscio di casa. Molte donne, illuse da quel miraggio, avevano fatto montare un rubinetto nell’allaccio esterno; altre, più fiduciose, si erano spinte oltre, installandone uno anche in cucina (che meraviglia immaginare d’avere l’acqua corrente direttamente in cucina!). Ma quei cannuoli, negli anni, si erano pian piano trasformati in piccoli, aridi monumenti  all’inganno!

In origine il quartiere era chiamato “ Firriatu” per via di un ampio spiazzo (ariu), che lì si trovava per il pestaggio di sommacco, fagioli, frumento ed altro. Mettevano in questo ampio ariu (oggi Piazza Antonio Gramsci) i vegetali a raggiera fitta fitta, e il padrone di turno,

posto al centro con l’asino tenuto per le redini, lo faceva firriari ntunnu ntunnu, [(lo) faceva girare tutt’intorno (da qui il termine “firriatu”)], in modo che gli zoccoli li spampinavanu, lasciando a terra il prodotto che serviva. Era stato un certo Ntoni Sapienza, qualche anno prima del rivùgghiu rî pignati, a ribattezzare “Somalia” quel quartiere. Ntoni possedeva un piccolo appezzamento di terra, che coltivò fin quando gli acciacchi glielo permisero. Era un autentico autodidatta, di cervello fino, togliattiano convinto fino all’osso, estimatore di Girolamo Li Causi, il capo dei comunisti siciliani.

«Quel quartiere abbandonato è come la Somalia» aveva gridato dal minuscolo palco durante un comizio in Piazza Duomo, con un gruppetto di braccianti ad ascoltarlo. E se lo diceva lui, che in Somalia vi aveva lavorato per tanti anni durante il fascismo, c’era da crederci. Di quel popolo «umiliato dall’imperialismo infame» -come soleva dire- gli erano rimasti ben incisi nella mente la «miseria e il silenzio».  Concluso il comizio, era sceso dal palchetto (poco più che una panca), aveva acceso l’ennesima Alfa e, mentre Iachinu e Bastianu si caricavano sulle spalle il podio, si era già avviato lentamente verso casa, infilato nel cappottone grigio più pesante di lui.

Peppino, Giuseppe e Giampiero conoscevano bene la realtà della Somalia. Si sentivano a casa loro quando vi si recavano per fare propaganda. Erano studenti, è vero, ma sapevano come parlare coi braccianti e con le loro mogli, madri e figli. I discorsi, manco a dirlo, finivano sempre col cadere sul problema dell’acqua e sulla rete idrica tutta fraricia [infradicita]; sulla fatica enorme di doverla prelevare presso gli abbeveratoi o da qualche vicina più fortunata dove, di tanto in tanto, per virtù dello spirito santo, arrivava qualche filo. E diventavano furiose, agitavano i pugni, imprecavano, non sopportando più quella vita da accattoni, senza potersi lavare cuomu ddiu cumanna [come dio comanda] o pulire piatti, pentole e bicchieri, non cu na liccata [(non) con una leccata]. La bomba d’acqua, dunque, sarebbe prima o poi esplosa. E così fu!

I tre, in quegli anni, erano ormai molto critici col PCI, e Giuseppe, l’unico iscritto al partito, ma in procinto di lasciarlo per aderire, con Peppino, Giampiero e altri, al Partito Comunista d’Italia Marxista-Leninista (Linea Rossa) il cui ideologo era un certo Dinucci. Oltre alla “Linea Rossa” (filo maoista) vi era anche la stessa sigla declinata in “Linea Nera” (accusata dai primi, di essere un covo di infiltrati). Era un pullulare di sigle, di gruppi e sottogruppi, di formazioni più o meno limpide con accanto un fiorire di giornali ed opuscoli di ogni tipo, formato e colore. Peppino e Giampiero, come altri, avevano saltato piè pari l’”esperienza PCI”, entrando, per un breve periodo, direttamente in altri partitini più estremi,  dopo la parentesi che li aveva visti nel nuovo PSIUP di Lelio Basso e Vittorio Foa.

Una sera di luglio del 1967, mentre il vento di scirocco mozzava il fiato, bussarono alla porta di casa. Giuseppe aprì e si trovò davanti i capelli sventolanti di Peppino e la sigaretta stretta fra le dita consumata dal vento. Alle sue spalle spuntarono Giampiero e Giacomino, l’unico, quest’ultimo, a disporre di un’auto (una Fiat Seicento) per spostarsi da Cinisi a quell’ora e con quel vento. Giuseppe li tirò dentro, chiedendo preoccupato cosa fosse successo. Peppino rispose a raffica, in siciliano stretto: U tiempu è maturu … c’àiu pinzatu tuttu u iùornu: amu a ffari un volantinu sta sira stissa …pi spartilu nta Somalia dumani, a mmatinu … avi a iessiri curtu, cu paruoli ‘nsirragghiati [il tempo è maturo. ci ho pensato tutto il giorno: dobbiamo fare un volantino questa sera stessa, distribuirlo in “Somalia” domani mattina, deve essere breve, con “parole d’ordine” precise]. Il caldo di quei giorni -aggiunse- stava esasperando le famiglie senza acqua.  A confermarglielo era stato Ninu, u figghiu ri Furiettu [Nino, il figlio di “Furetto” (soprannome di un vecchio bracciante comunista)]. “Quello” aveva pure detto che si aspettavano da loro un aiuto più concreto, una spinta. Peppino aveva precisato, infine, di avere già la matrice e trecento fogli da ciclostilare, che bisognava soltanto incidere a macchina il testo sulla matrice e ciclostilarlo subito.  Giuseppe s’infilò la maglietta, mise in tasca la chiave di casa e quella della sezione del PCI ancora in suo possesso, (una delle poche sedi, in zona, a disporre di un ciclostile e di una vecchia Olivetti). Nessuno, oggi, ricorda più neanche l’inizio di quel volantino distribuito la mattina seguente, casa per casa, nel quartiere assetato; non ne esiste copia originale , ma è immaginabile cosa contenesse. Un fatto però è certo, che, scritto a quattro mani -come sempre accade- costò qualche fatica, ma in compenso fu brevissimo e con parole d’ordine precise, proprio  come aveva chiesto Peppino. E lo fu così tanto, che non ci volle molto, quella mattina di luglio del 1967, ad entrare in perfetta sintonia col rivùgghiu rî pignati. Infatti trecento copie risultarono troppe: dopo averne distribuito alcune decine, le donne e i bambini, col passaparola, avevano saputo far di meglio e di più. D’improvviso, il vociare, l’andirivieni di donne e bambini con le pentole passate di mano in mano, avevano ceduto il … passo a un corteo compatto e rabbioso. I “tre”, intanto, si erano spostati in Via Partinico e ora, più di duecento donne e ragazzini rumoreggianti, con pentole di varia forma e capienza, percossi come tamburi, avevano cominciato a muoversi lungo la Via Partinico, per imboccare la parte mediana della Strata Cursa [Via Corsa(Corso Vittorio Emanuele III)] e raggiungere la sede del Municipio (in quel periodo trasferita in una civile abitazione in affitto, quasi ad angolo tra Via delle Vasche e Via Roma , essendo in corso i lavori di ristrutturazione di Palazzo La Grua, sede storica della Comune).

Il sindaco, il democristiano dott. Giacomo Consiglio, avvertito dai vigili urbani, era sceso, visibilmente teso, ponendosi all’ingresso del Comune, per rendersi meglio conto di quanto stava accadendo. Ma, non appena la situazione gli fu chiara, aveva preferito risalire nel suo ufficio. Era stata quella, forse, una decisione infelice, che aveva acceso ancor di più gli animi: le donne, infatti, avevano tentato di penetrare all’interno dell’edificio, ma erano state bloccate a stento da due vigili e dal personale, che avevano sprangato le porte dall’interno.

Intanto, sulla strada, si era radunata una gran folla di curiosi, mentre, l’improvviso materializzarsi di una colonna di cellulari, aveva acuito non poco la tensione. Una parte della colonna si era disposta a monte e l’altra a valle del rivùgghiu, mentre una moltitudine di carabinieri, in assetto antisommossa (fatti affluire da Partinico e, forse, da Carini e Cinisi), si era disposta vicino ai rispettivi mezzi. A un certo momento, un gruppo di essi si era però mosso col chiaro intento di bloccare e arrestare i tre “agitatori”, ma le donne, intuito al volo le intenzioni, avevano formato in un lampo una specie di cordone protettivo, consentendo ai tre di svicolare verso l’unico varco semi libero di Via delle Vasche.

Una settimana dopo, raccontano le delibere di “somma urgenza”, erano stati realizzati gli scavi per i nuovi allacci idrici della Somalia.

2

La bandiera e la croce

L’anno prima del “ribollio delle pentole” (1967), Peppino e Giuseppe avevano seguito allarmati la strisciante speculazione (cementificazione) sulla costa di Cala Rossa, che, dalla Cala propriamente detta, giungeva (e giunge) sull’altura di Capo Rama, sovrastante la piccola baia. L’attenzione, poi, si era soprattutto appuntata sul terreno scosceso antistante la cala. Bastava percorrervi un breve viottolo naturale, fin quando il passo non si arrestava dinanzi a un enorme masso, che bisognava superare con qualche difficoltà. La cala, superato il masso, ti abbagliava non solo per la sua bellezza, ma anche per i candidi ciottoli su cui rimbalzavano i raggi del sole. Non era molto frequentata, vista la distanza dal centro abitato, se non da persone particolarmente attratte dalla natura selvaggia del luogo, ma presto ben altri amanti l’avrebbero scoperta per meglio … “valorizzarla”!

La strada, un tempo un’antica trazzera pietrosa, era stata asfaltata da poco; collegava il centro abitato con la zona, salendo fin dove oggi sorgono alcuni residence. Sia pure asfaltata, non era come oggi la vediamo, ma più stretta e tortuosa fiancheggiata da selvaggia vegetazione, con prevalenza di palma nana e di rovi di more. Nel primo tratto più vicino al mare, gli eucalyptus dell'”Opus Dei”, del tutto estranei al nostro biotopo, erano stati da poco piantati, ed era quindi ancora quasi intatto il panorama esaltato dal dolce isolotto.

L’isolotto? Sì, proprio quello, l’isolotto di Cala Rossa, simile all’occhio di Polifemo nel bel mezzo della piccola baia.

Peppino, una mattina d’estate (avrà avuto 17 anni) aveva deciso di andarci con amici a fare il bagno. Cinquant’anni fa, dire «andiamo a Cala Rossa», era un avvenimento; più o meno come oggi dire «andiamo a San Vito Lo Capo».

Non appena arrivato, aveva notato che, ad iniziare dalla strada, lungo il terreno era stato steso il filo spinato fissato a robuste aste di ferro piantate, a loro volta, su un cordolo in cemento alto mezzo metro e lungo per tutto il fianco del terreno scosceso. Cala Rossa, di fatto, con quella recinzione, veniva resa quasi inaccessibile; responsabile una società, in sigla si chiamava ARCIS o qualcosa di simile. Sulla destra, il casermone dell’”Opus Dei” era già a metà dell’Opus (umana), mentre, ad ovest, fervevano i preparativi sull’alto profilo di Capo Rama che, di lì a poco, avrebbe visto spuntare come funghi innumerevoli residence bifamiliari, spacciati per “albergo”!

Ciò nondimeno Peppino e gli amici, imprecando, scavalcarono la recinzione e si avviarono giù, verso la cala. La giornata era magnifica, il mare piatto come l’olio, senza un filo di vento. Scelsero il punto migliore fra i ciottoli e le rocce e cominciarono a spogliarsi (allora, a mare,  si andava vestiti di tutto punto). Ad un tratto, però, mentre Peppino, seduto su un ciottolo più grosso, si slacciava le scarpe, lo sguardo gli cadde là in fondo, sull’isolotto. Rimase bloccato, incredulo: una enorme croce di ferro svettava sulla sua sommità. Richiamò l’attenzione degli altri e … giù commenti a non finire. Quello di Peppino fu, come suo solito, caustico: «E cchi è l’Isola di Montecristo! Chi c’annu a ffari a Via Crucis?»

Giuseppe, nel pomeriggio, lo incontrò nel “Bar Sport” di u zzu Vartulu [zio Bartolo] nella piazza di Terrasini: «Ma tu niente ne sai?».

«Che devo sapere?» .

E dopo avergli raccontato tutto per filo e per segno, Peppino gli fece una proposta che lo entusiasmò: occorreva trovare una enorme bandiera rossa (e quello era il meno) e poi procurarsi, al porto, un uzzareddu (piccola barca da pesca a remi) per andare a fissare una bandiera rossa accanto alla croce. Giuseppe gli chiese se ne avesse parlato con altri e lui raccomandò che doveva restare fra loro due. Non era chiaro, però chi avrebbe dovuto prestargli la barca per spingersi a remi dal porto fino all’isolotto (e questo era il più!). E poi, di giorno? di sera? quando?  A tutto questo ci avrebbero pensato poco per volta. Giuseppe volle vedere coi propri occhi la croce. Inforcarono le bici e raggiunsero un punto da cui si poteva scorgere l’isolotto. Ma chi aveva dato il permesso di piantarla?

«Il permesso?», aveva risposto Peppino. «Ma tu dove vivi?».

Piantare la bandiera rossa, secondo il loro modo istintivo di ragionare, equivaleva a riequilibrare i messaggi. Non era un atto contro Cristo, ma contro gli uomini, contro i parrini [i preti] che facevano e disfacevano a loro piacimento; che usavano la croce per opprimere e non per liberare. Che senso aveva quella immensa croce conficcata proprio lì, nell’occhio della piccola baia? Se aveva un senso, allora anche la bandiera rossa, legata alla croce, ne aveva uno: quello di gridare contro la volgarità degli uomini che la usavano nel modo in cui la usano. E, poi, forse, il rosso non era il colore della rivoluzione del Gesù-uomo? Ma le “giustificazioni”, diciamo così, di ordine “storico-teologiche”, non servirono a evitare gli interrogativi pratici sulla barca e su tutto il resto. A chi chiederla in prestito senza far trapelare nulla? e chi avrebbe dovuto remare fino all’isolotto? Suscia ca vuola?! [soffia che vola (un modo di dire per indicare persone deboli e fragili)]. E inoltre: quali le misure della bandiera e dell’asta?  Ad occhio e  croce avevano pensato a un’asta di almeno 3 metri e alla bandiera di almeno 2×2, se non la si voleva far “sfigurare” accanto alla mastodontica croce. In tutto questo progettare, in questo gioco di immagini allegoriche, traspariva (ma era l’età) un alto tasso di goliardia mista ad ingenuità. E così, a furia di parlarne, finiva sempre a bbabbiu [scherzo], mentre i giorni passavano, e più passavano, più il progetto si afflosciava come bandiera quando cala il vento.

Dopo una settimana attuarono l’azione. Ma fu un clamoroso ripiego! Una bella mattina, ben visibile dalla strada, comparve, sul cordolo in cemento della recinzione, una grande scritta:  «CALA ROSSA LIBERA!» La vernice, però, neanche rossa era, perché, squattrinati com’erano, usarono un rimasuglio di colore verde.

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