Testimonianza di Giovanni Riccobono su Peppino Impastato

 

QUASI UN URLO DI LIBERTA’

Dove un gruppo di uomini liberi si unisce

tu sei presente,

dove la bandiera

illumina il sangue dei morti

tu ci sei,

tra confronti e scrollamenti

il tuo volto si riconosce,

la tua voce rinasce,

quasi un urlo di libertà

che scuote le coscienze

Cinisi 1978      Giovanni Riccobono

 

Gli inizi degli anni ’70, fino al 73/74, sono per me un periodo molto delicato e importante, che segnano una crescita culturale e politica molto travagliata, sfociata spesso in conflitti familiari, soprattutto con mio padre, uomo onesto e lavoratore infaticabile, ma legato alla mentalità dell’omertà e del silenzio. Tali conflitti caratterizzano anche parecchi giovani del paese.

Il mio primo passo nella politica avviene con l’avvicinamento al P.C.I. dove rimango un certo periodo  come simpatizzante; frequento la sezione giovanile locale perché avevo rapporti d’amicizia con dei giovani coetanei iscritti al partito: questa frequenza mi porterà la sera del 9 maggio ’78 ad assistere al tradimento di compagni nei confronti di un compagno. In quella sezione ed in tantissime altre occasioni, Peppino aveva lavorato e si era confrontato con quelle persone, che in quella tragica sera si fanno dare le direttive per un volantino da un dirigente provinciale del Partito Comunista Italiano, non riconoscendo Peppino come un compagno e mettendo persino in discussione che il suo sia un delitto di mafia.

In quegli anni a Cinisi si muove un gruppo di giovani che abbraccia le tematiche del tempo,  politicamente  vicino al movimento di “Lotta continua”, dove confluisco e dove la presenza di Peppino, il suo spessore politico, culturale e umano riesce a trasmettere a molti giovani un senso critico nei confronti dei partiti storici ed una nuova voglia di confrontarsi con il paese, attraverso denunce d’abusi e di malaffare. Entro in questo gruppo ed insieme cominciamo a fare un lavoro di controinformazione, denunciamo abusi edilizi e collusioni politiche con la mafia locale, aderiamo alle campagne elettorali tra le diverse sigle della sinistra extraparlamentare. Si instaurano rapporti di lavoro e di confronto con compagni di altre realtà e di altri paesi come Partinico, Castellammare, Terrasini ed alcuni giovani, spinti ed incoraggiati da Peppino, grande oratore, debuttano nella politica. La vita è molto movimentata tra un comizio e un volantino di denuncia, una lite in famiglia e un’ennesima sconfitta elettorale. Nel dicembre ’75 un gruppo di ragazzi organizza un concerto musicale che doveva tenersi nel teatrino della chiesa del Sacramento, ma, dopo tanti preparativi, il giorno prima della data stabilita, ci viene negato l’utilizzo del locale: con mille difficoltà, riusciamo a fare il concerto lo stesso nell’aula consiliare, grazie all’intervento del vicesindaco Franco Maniaci, del P.C.I., responsabile del primo caso in Italia di compromesso storico. Centinaia di giovani partecipano entusiasti all’evento e in quella occasione riusciamo a cogliere il messaggio che viene fuori, cioè il bisogno di uno spazio dove incontrarsi, ascoltare musica, fare teatro, esprimersi e confrontarsi. Nasce il Circolo Musica e Cultura. In questo circolo il lavoro, l’impegno è continuo, si condividono insieme nuove esperienze; il piccolo locale diventa una fucina culturale e politica; quel centinaio di posti a sedere accolgono spettacoli musicali e teatrali, vi si propongono e si realizzano incontri, dibattiti su temi che sono in quel periodo attuali e scottanti, come l’aborto ed il divorzio. In questo spazio vivono e convivono, nascono e appassiscono tante idee e tante speranze, le contraddizioni giovanili esplodono sia a livello nazionale che locale, queste esperienze danno una svolta nella vita di molti giovani; c’è una crescita culturale e politica che proietta Cinisi come paese d’avanguardia dove però vivono in maniera forte atteggiamenti e mentalità mafiose molto radicate. In molti giovani cresce la coscienza civile antimafiosa , come in occasione della mostra itinerante sul territorio: i bisogni di alcuni compagni diventano oggetto di discussione, insieme al tentativo di dar loro una risposta. In tutta questa attività si fa sentire il peso, lo spessore politico-culturale di Peppino, infaticabile e lungimirante; egli capisce che bisogna arrivare alla gente, dentro le case e quindi bisogna cercare altri stimoli, intuisce che l’esperienza del circolo sta per concludersi e che bisogna andare avanti: nasce Radio Aut. La scelta della radio come mezzo di comunicazione è chiaramente di spessore politico non partitico: la controinformazione diventa la nostra nuova arma per incidere nelle scelte del paese, con trasmissioni e argomentazioni che devono penetrare nel tessuto sociale. La trasmissione “Onda Pazza” è il fiore all’occhiello della radio: programma di satira politica e di costume, dove i politici locali, i potenti ed i mafiosi vengono ridicolizzati e presi in giro. La trasmissione in paese è molto ascoltata, tutti hanno la possibilità di capire attraverso nomi storpiati, i veri nomi di coloro che vengono denunciati all’opinione pubblica per i loro intrallazzi, le collusioni tra politica e mafia, la devastazione del territorio e la selvaggia cementificazione , spesso bloccata per la denunzie fatte attraverso la radio. Tutte queste attività e tutti questi anni vissuti con Peppino e i compagni, il rafforzarsi della coscienza civile e politica mi porteranno nel dicembre del ’78, alcuni mesi dopo la morte di Peppino, a denunciare al giudice istruttore Rocco Chinnici, due miei cugini che verranno poi processati. Infatti, il pomeriggio dell’8 Maggio ’78 mi trovavo a Palermo sul posto di lavoro insieme a mio cugino che era anche il titolare del negozio. Nel tardo pomeriggio egli mi chiama in disparte e mi suggerisce, per quella sera, di non andare in paese, perché sarebbe successo qualcosa di grosso; ad una mia richiesta, risponde che quel tipo d’informazione gli è stata riferita dal fratello. Quell’avvertimento suscita in me una reazione contraria, mi metto in macchina (una vecchia Fiat 126) e ritorno in paese. Il mio primo pensiero è verso Peppino, quindi mi reco a Radio Aut dove abitualmente egli si trovava. Arrivo verso le 19,45 ed egli sta finendo di ascoltare una sua intervista rilasciata ad una radio libera di Terrasini; quindi si allontana, dicendo che ci saremmo rivisti più tardi per un’assemblea convocata per le ore 21, in radio, per organizzare gli eventuali di chiusura della campagna elettorale. Riferisco ai compagni quello che mi era stato detto ed entriamo in apprensione quando constatiamo che Peppino ritarda, fino a quando non decido, verso le 21,15 di recarmi, insieme ad altri due compagni a casa di Peppino a cercarlo. Viene ad aprire Felicetta, si avvicina anche Giovanni,  senza allarmarli, visto che Peppino non è con loro, dico che probabilmente egli si era fermato a parlare con qualche conoscente. La ricerca dura tutta la notte, setacciamo la zona, da Terrasini a Cinisi, dalle stradine dell’entroterra a quelle di mare, ma con esito negativo.

L’indomani il ritrovamento del corpo straziato, gli interrogatori spietati dei compagni, il tentativo di depistaggio e le prove da noi trovate e fornite agli inquirenti, senza che questi le prendano in considerazione. A causa di questo comportamento equivoco e fazioso non rendo subito la mia testimonianza.

Nel febbraio ’79, il giudice istruttore Rocco Chinnici, cui avevo esposto la mia denuncia, coglie l’importanza della mia testimonianza e dopo un confronto con mio cugino, qualche giorno dopo, spicca allo stesso un mandato di cattura per reticenza e falsa testimonianza. Rimarrà in carcere 18 giorni: i giornali danno grande spazio alla notizia.

Questa mia denunzia lascia sia in me che nella mia famiglia un segno indelebile e a tutt’oggi ha un grosso peso nel rapporto familiare, poiché questa situazione ha portato membri della mia famiglia a fare una scelta, magari schierandosi con chi è stato rinchiuso in carcere, ma ha comunque rafforzato il rapporto con i miei anziani genitori e vicini familiari. Credo che questa situazione, verificatasi nel paese di Gaetano Badalamenti, in quel periodo il più grosso rappresentante della mafia in zona e non solo, abbia provocato una specie d’isolamento alla mia famiglia, soprattutto ai miei genitori, li ha fatti soffrire in maniera pesante ed umiliante e probabilmente ha accelerato la malattia che li ha portati a lasciare questa terra poco tempo dopo. Credo che questa mia denuncia sia stato il primo caso nella storia della lotta alla mafia, nei confronti di un parente prossimo che poi verrà processato.

La coscienza di “uomo libero” nel rispetto di Peppino, della sua famiglia, dei compagni di Cinisi e Terrasini con cui ero cresciuto insieme, mi hanno portato a testimoniare al processo contro Gaetano Badalamenti.

Dalla “Relazione sul caso Impastato della Commissione Nazionale Antimafia” : “Le dichiarazioni rese a questa Commissione da Giovanni Riccobono, nel corso della missione del comitato a Palermo del 31 Marzo del 2000, meritano di essere riportate perché espressione di coraggio civile e di capacità di rottura di un clima omertoso fondato anche sul ricatto degli affetti familiari. Quando il processo approda dinanzi al giudice Chinnici, il giovane Riccobono rompe gli schemi, denuncia un fatto di particolare importanza ai fini dell’indagine e lo conferma, poi, anche in sede di confronto con il cugino Amenta dinanzi al giudice istruttore”.

Credo di non avere mai sofferto tanto in vita mia. Essere additato in paese come un infame, “u cascittuni”, essere allontanato dai conoscenti che fino a qualche giorno prima avevano di te una buona opinione, sentirti giudicare sotto voce come un traditore. Per questo sono stato costretto a lasciare il paese per un breve periodo.

Essere di fronte ad una situazione che in certi momenti sapeva di irreale: da un lato la mentalità, gli affetti, i legami sentimentali e familiari, i ricordi di vita, il rapporto giornaliero, dall’altro lato la mia coscienza, la formazione politico culturale, l’impegno nel sociale: uno scontro che ha messo a dura prova la mia giovane coscienza di compagno, di chi vedeva in quella generazione la possibilità di abbattere il potere politico-affaristico-mafioso che metteva a dura prova soprattutto l’equilibrio e la sicurezza personale.

Io ho avuto Peppino come compagno, come amico, ho condiviso con lui la diversità ideologica che lo distingueva e che mi ha portato a vedere, al di là dei processi normali di crescita, quello che insieme si poteva fare e creare oltre che trovare il coraggio di rompere con la realtà mafiosa dell’ambiente familiare: questi credo siano stati gli insegnamenti che mi ha trasmesso durante la sua breve vita, ma senza rendersene conto.

Ricordo il giorno in cui decisi di testimoniare e quando volli giustificare questa mia decisione. Dissi che lo dovevo fare per rispetto di Peppino, per quello che gli avevano fatto, per rispetto di una persona dal coraggio immenso e che ci aveva difeso e se non avessi testimoniato mi sarei sentito un verme per tutta la vita.

Credo che lui non volesse in nessun modo essere un leader, un maestro, ma aveva una gran voglia di crescere insieme a noi e se qualche volta andava troppo avanti, subito dopo si fermava ad aspettarci. Questo modo leale e sincero di vivere con noi credo sia stato l’insegnamento più grande che poteva lasciarmi.

Oggi dico a mia moglie, ai miei figli e a tutti coloro che condividono la mia scelta che sono orgoglioso di quello che ho fatto, di come ho reagito nei momenti difficili che si sono susseguiti; di essere fiero per gli insegnamenti che ho cercato e cerco di trasmettere ai miei figli e di ritenermi un uomo molto fortunato per avere avuto vicino una donna come Patrizia (mia moglie) che è stata un’amica, una compagna, consigliera dolce e premurosa che mi ha spronato sempre ad andare avanti standomi vicino, anche quando pensavo di non farcela.

Adesso ho una bella famiglia, quando parlo di Peppino ai miei figli Antonio e Luigi, dico che sono stato molto fortunato ad averci vissuto insieme tanti anni e sono orgoglioso di avere conosciuto una persona di uno spessore umano e culturale eccezionale; ed è allora che vedo in loro un velo di tristezza, solo perché non hanno avuto la fortuna di poterlo conoscere.

 

EPSON MFP image

 

Nota: Giovanni Riccobono è un compagno con cui ho condiviso cinquant’anni di lotte, di militanza politica, di amicizia,  dai tempi di Radio Aut alle prove e ai concerti portati avanti con il “Collettivo Musicale Peppino Impastato”, dove egli suonava e suona le percussioni e per il quale ha scritto diversi testi.Il titolo della poesia all’inizio è quello che ho scelto anche per la prima raccolta di poesie su Peppino Impastato pubblicata dalle Edizioni della Battaglia, Palermo 1996. Il suo “ricordo” fa parte di una serie di testimonianze su Peppino pronte per la pubblicazione. Nella foto, presumibilmente di Paolo Chirco, scattata il 9 maggio 1979, Giovanni Riccobono è al centro, capelli lunghi e camicia a quadri.

 

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