Sul rapporto massoneria-‘ndrangheta (Pietro Orsatti)

QUANTO IPOCRITA STUPORE QUANDO EMERGE IL RAPPORTO ‘NDRANGHETA-MASSONERIA

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L’ipocrisia, da parte della politica e anche del sistema informativo italiano, raggiunge a volte livelli sublimi. L’ultimo clamoroso caso ce lo offre l’ultima operazione contro la ‘ndrangheta di questi giorni dove emergono con chiarezza tre fatti: 1 che la ‘ndrangheta si è evoluta da organizzazione criminale “di strada” in holding affaristica e lobby di potere; 2 che questa evoluzione è avvenuta attraverso il superamento della forma organizzativa tradizionale e un rapporto di collaborazione diretta con la massoneria, la politica e la finanza; 3 che ai vertici dell’organizzazione si sono poste figure anche di rilievo della politica.

L’operazione di questi ultimi giorni ha una grandissima importanza proprio perché svela e cerca di bloccare di fatto una trasformazione che è in atto da più di 40 anni, che ormai è diventata sistema e che si riproduce continuamente e si ripropone sia a livello nazionale che internazionale.

La cosa che stupisce (e preoccupa) è come i media raccontino questo successo da parte della magistratura e delle forze dell’ordine. Lascia a bocca aperta lo stupore – non si capisce se finto o reale – con cui spigano ai propri lettori e spettatori il grande mistero imprevedibile e misterioso del rapporto sistemico fra ‘ndrangheta, massoneria, finanza e politica.

Per capirci, sono quarant’anni che ci sono segnali chiari (e documentati anche in processi non solo in Calabria) di questo rapporto sistemico. Ma l’informazione ha snobbato per quarant’anni la faccia “perbene” della ‘ndrangheta politico-massonica. Perfino quando questa metteva pesantemente mano anche nell’eversione nera (Boia Chi Molla e strage di Gioia Tauro). E quindi ora tutti a mostrarsi stupiti.

Non lo sapevate?

Porto un esempio. Nel 2014 (febbraio) con Floriana Bulfon per Imprimatur editore pubblicai il libro Grande Racccordo Criminale (con il quale anticipavamo di quasi un anno quello che poi successe a dicembre con l’operazione Mafia Capitale. Ne riporto qui sotto un brano, frutto di un lavoro di inchiesta e di reporting basato in gran parte su fonti aperte (pubbliche) e su libri e articoli e documentazione a partire dalla fine degli anni ’60.

Buona lettura

«Sarà stata la fine degli anni Sessanta o poco dopo
quando a Reggio si tenne una riunione con dei pezzi gros-
si dei siciliani», raccontava Francesco Fonti, il pentito di
‘ndrangheta, nella lunga chiacchierata che ci ha concesso
qualche anno fa. «Mi dissero che oltre a Paolo De Stefano
e altri boss sia di Reggio che della Piana di Gioia Tauro
partecipò per Cosa nostra Giuseppe Di Cristina. Nella ri-
unione chiese che fosse tolto il blocco che c’era all’epoca
sul transito dell’eroina in Calabria. I vecchi capi si oppo-
nevano. E l’affare era enorme già allora e sarebbe cresciu-
to, come è successo. Non so cosa si decise, ma so che su-
bito dopo iniziò una strage di quelli che si erano opposti
ai siciliani. E poi che la Santa, l’apertura ai rapporti con
la politica e con la massoneria, comparve segretamente in
quella fase». Un’alleanza? Se fu così, ancora una volta fu
fondata sulla droga.
Due nomi precisi quelli che pronuncia Fonti. Due nomi
che hanno un peso. Il primo: Giuseppe Di Cristina, spes-
so descritto come capo mafia rozzo e brutale della Sicilia
rurale, come uno di quei mafiosi con la coppola e la lu-
para. Ma Di Cristina, il capo della famiglia di Riesi, era
tutt’altro: vicinissimo a Gaetano Badalamenti e Stefano
Bontate, quel mafioso dall’entroterra era uomo rispettato
e soprattutto ascoltato da più di un decennio a Palermo.
Fu lui il primo ad andare allo scontro con Liggio e Ri-
ina e per questo finì ammazzato nel 1978 all’alba della
mattanza. Un uomo con relazioni complesse e mai del
tutto svelate con pezzi dello Stato, tanto che poco prima
di essere ucciso si era messo a fare il confidente dei cara-
binieri, cercando in questo modo di colpire i corleonesi.
E il suo nome finisce persino nell’inchiesta sulla morte,
184nel 1962, del presidente dell’Eni Enrico Mattei, indicato
come possibile esecutore materiale del piano di sabotag-
gio attuato nell’aeroporto di Catania. O forse qualcosa di
più. La morte di Mattei, un capitolo oscuro, e mai risolto,
della storia italiana in cui si intravede di tutto, dall’intrigo
internazionale ordito dalle Sette sorelle a pezzi della poli-
tica dell’epoca, dall’estremismo di destra che si incarnava
nella figura di Junio Valerio Borghese alla mafia, non solo
siciliana, fino all’avvocato Vito Guarrasi di Alcamo, accu-
sato di depistaggio delle indagini, uno degli uomini più
potenti dell’epoca, cugino di Enrico Cuccia, frequentato-
re e amico della famiglia Agnelli, già presente, nonostan-
te fosse solo un sottotenente di complemento, alla firma
dell’armistizio sottoscritto a Cassibile nel ‘43 fra le Forze
Alleate e il Regno D’Italia.
Il secondo nome è quello di Paolo De Stefano, il boss
di Reggio Calabria che ha compiuto una rivoluzione e
aperto le porte della ‘ndrangheta al rapporto con l’ever-
sione di destra e la massoneria in un momento cruciale
della storia del Paese, quello della strategia della tensio-
ne. Nell’estate del 2003, davanti al sostituto procuratore
nazionale antimafia Enzo Macrì, sono i collaboratori Alfa
e Beta, Giacomo Lauro della famiglia Imerti e Filippo Bar-
reca dei De Stefano, a spiegarlo. Lauro, dopo aver am-
messo di aver fornito l’esplosivo necessario a far saltare
i binari, racconta dettagli inquietanti sulla strage di Gio-
ia Tauro del 22 luglio 1970, a pochi giorni dall’inizio dei
“moti di Reggio Calabria” passati alla storia come “Boia
chi Molla”. «Durante la mia attività nell’ambito della
malavita comune, sono entrato in contatto con elementi
appartenenti ad Avanguardia Nazionale e in genere con
elementi di estrema destra: questi infatti nella prima metà
degli anni Settanta erano sempre alla ricerca di armi ed
esplosivo e si rivolgevano appunto alla malavita organiz-
zata». Filippo Barreca spiega poi come, per conto di Paolo
185De Stefano, poco prima della sentenza di Catanzaro sulla
strage di Piazza Fontana, si fosse occupato di curare la
latitanza di Franco Freda e di partecipare alla sua fuga
in Costa Rica. «Prima di andare via da casa mia, Freda
mi lasciò una lettera scritta di suo pugno, indirizzata a
Paolo De Stefano all’epoca detenuto, con la quale lo rin-
graziava dell’ospitalità ricevuta a Reggio e si impegnava
a interessarsi della sua scarcerazione […]. So anche che
dopo essere andato via da Reggio, Freda venne ospita-
to in casa di un calabrese abitante a Ventimiglia, che era
nello stesso tempo affiliato alla ‘ndrangheta e massone,
iscritto in una loggia segreta di cui parlerò fra poco. Que-
sta persona aiutò Freda a espatriare in Francia, da dove
raggiunse il Costa Rica in aereo […]. Ho partecipato ad
alcuni degli incontri avvenuti a casa mia fra Freda, Paolo
Romeo e Giorgio De Stefano. Tali discorsi riguardavano
la costituzione di una loggia segreta, nella quale dove-
vano confluire personaggi di ‘ndrangheta e della destra
eversiva e precisamente lo stesso Freda, l’avvocato Paolo
Romeo, l’avvocato Giorgio De Stefano, Paolo De Stefano,
Peppe Piromalli, Antonio Nirta, Fefè Zerbi. Altra loggia
dalle stesse caratteristiche era stata costituita a Catania.
La superloggia di cui ho parlato doveva avere sede a Reg-
gio Calabria e veniva ad inserirsi in una loggia massonica
ufficiale, e precisamente quella di cui faceva parte il pre-
side Zaccone, personaggio notoriamente legato al gruppo
De Stefano. Queste logge avevano come obiettivo un pro-
getto eversivo di carattere nazionale, che doveva essere
la prosecuzione di quello iniziato negli anni Settanta con
i “moti di Reggio” […]. Freda ebbe a dirmi che se fosse
stato condannato avrebbe fatto rivelazioni che potevano
far saltare l’Italia, intendendo riferirsi ai suoi collegamen-
ti con i servizi di sicurezza e il ministero dell’Interno».
La ‘ndrangheta e quella passione per la massoneria mai
spenta, tanto che nel novembre 2013, il Grande Oriente
186d’Italia, per intervento del Gran Maestro Gustavo Raffi,
ha sospeso la loggia Rocco Verducci con sede a Gerace in
provincia di Reggio Calabria. Motivazione: infiltrazione
di elementi della ‘ndrangheta. Un caso unico in Italia. La
decisione è stata presa dopo le numerose segnalazioni di
iscritti che erano contemporaneamente esponenti di spic-
co dell’organizzazione mafiosa calabrese. Come del resto
era emerso chiaramente nell’operazione “Saggezza” co-
ordinata dalla Dda di Reggio l’anno precedente.
Con quel “biglietto da visita” i De Stefano si presenta-
no e partecipano all’instaurarsi del “sistema”, apripista
della corsa calabrese alla Capitale. Una corsa particolar-
mente importante perché «operare su Roma garantisce
prestigio, rappresenta un viatico per agganciare pezzi di
potere reale: politico, economico e sociale. Oltre a pezzi
della pubblica amministrazione regionale e nazionale»,
spiega il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nico-
la Gratteri. Un sistema complesso di penetrazione che
sul piano politico ha avuto un impatto dirompente. Per-
ché attraverso il proprio potere economico e coercitivo
– basato sull’intimidazione e il ricatto – la ‘ndrangheta,
come in Calabria anche a Roma, ha la capacità di spostare
blocchi di voti rilevanti in cambio di appalti e favori. La
‘ndrangheta media tra affari e politica, perché nella Ca-
pitale prima di tutto contano le conoscenze. Soprattutto
quelle nei palazzi del potere.

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