Le nuove regole dell’economia per sconfiggere le disuguaglianze (J.Stiglitz)

 NOTA: Pubblico una breve sintesi del libro di Stiglitz, premio Nobel dell’economia, il quale individua il percorso che ha prodotto negli ultimi tempi il travaso di denaro e di ricchezze nelle mani di pochissimi e l’impoverimento della classe media, oltre che la miseria per le fasce sociali emarginate. Il libro indica anche alcune proposte per uscire dal gap di scarsa crescita dei consumi e dal divario economico tra classi sociali. Naturalmente tutto è affidato a una lettura e a una capacità razionale di trovare soluzioni dove la dignità dell’uomo non sia stritolata, cosa che al momento sembra molto lontana, perchè stritolata dalle regole capitalistiche del profitto ad ogni costo. E pertanto Stiglitz,che è un economista, non va oltre le regole e le leggi dell’economia, ma una rilettura politica delle attuali discrasie sociali non può essere esaustiva senza comprendere la possibilità di un ritorno allo scontro sociale e al richiamo di quello che successe nella Russia zarista con la rivoluzione d’Ottobre. (S.V.)
Ecco come i vecchi modelli economici ci hanno impoverito (e perché serve una svolta)

Ne “Le nuove regole dell’economia“ Joseph Stiglitz delinea il male interno dell’economia occidentale che ha ridotto i nostri redditi, e le nostre rendite. E traccia una mappa per uscire dalla crisi

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La Grande recessione iniziata nel 2008 ha aggravato le disuguaglianze di reddito, ricchezza e opportunità in tutto l’Occidente. Joseph Stiglitz è giunto alla conclusione, corroborata da inconfutabili evidenze empiriche, che la disuguaglianza è allo stesso tempo causa ed effetto della crisi. La disuguaglianza dipende da potenti forze globali, ma è in primo luogo una scelta deliberata, frutto delle sconsiderate politiche neoliberiste affermatesi fin dagli anni settanta.
Il messaggio di Stiglitz si allarga dagli Stati Uniti a tutto il mondo occidentale, e ribalta il radicato pregiudizio secondo cui per perseguire l’uguaglianza è necessario sacrificare la crescita economica: al contrario, senza maggiore uguaglianza non c’è crescita sostenibile. Per una prosperità condivisa non basta redistribuire il reddito attraverso imposte e trasferimenti; occorre anche favorire gli investimenti, aumentare i salari e l’influenza politica della maggioranza dei cittadini. Le nuove regole dell’economia proposte dal premio Nobel abbracciano un ampio ventaglio di riforme, dal fisco allo stato sociale, dall’istruzione alla lotta ai monopoli, dal diritto sindacale agli incentivi per il lavoro femminile, dalle infrastrutture al sistema penale, nella convinzione che combattere la disuguaglianza alla fonte è possibile, ed è l’unica strada verso un’economia più solida e più dinamica.

Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’Economia nel 2001, insegna alla Columbia University. È stato capo economista della Banca mondiale e consulente del governo statunitense. Tra i suoi libri ricordiamo: La globalizzazione e i suoi oppositori (Einaudi, 2002), La misura sbagliata delle nostre vite (con Amartya Sen e Jean-Paul Fitoussi, Etas, 2010), Il prezzo della disuguaglianza (Einaudi, 2013).

Da Le nuove regole dell’economia, di Joseph Stiglitz (Il Saggiatore)

Gli errori dei vecchi modelli

Le esperienze economiche degli ultimi trentacinque anni hanno smentito molte delle concezioni tradizionali in materia di teoria economica e di andamento della crescita. Affermando che «l’alta marea solleva tutte le barche», il presidente Kennedy diede voce a una teoria del progresso che ha guidato per anni il pensiero economico e le decisioni politiche. Negli anni cinquanta il premio Nobel Simon Kuznets ipotizzò che nelle fasi iniziali dello sviluppo di qualsiasi economia la disuguaglianza fosse destinata ad aumentare, per poi diminuire con i progressi compiuti dal sistema economico. L’osservazione di Kuznets descriveva accuratamente il drastico aumento delle disparità economiche registrato per un lungo periodo dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale, ma la storia, dagli anni settanta in poi, ha finito per contraddire la sua ipotesi. Negli ultimi decenni i benefici della crescita economica hanno interessato in modo sproporzionato il 20 per cento più ricco della popolazione, mentre la quota di reddito nazionale destinata al 99 per cento più povero si è ridotta. In questo periodo i redditi sono rimasti stagnanti, soprattutto per la popolazione maschile. Ancora più pressante è il fatto che tra il 2010 e il 2013 i salari mediani siano ulteriormente diminuiti, malgrado l’economia fosse entrata ufficialmente in una fase di ripresa. Ora sappiamo che nelle economie sviluppate l’alta marea non solleva necessariamente tutte le barche.

Il nostro mondo economico è stato sovvertito anche da una nuova concezione della relazione tra disuguaglianza e andamento dell’economia. In passato questa relazione veniva spesso concepita come una scelta di compromesso: si pensava, cioè, che si potesse avere maggiore uguaglianza solo al costo di un peggioramento della performance economica. Arthur Okun, presidente del Council of Economic Advisers durante la presidenza di Lyndon Johnson, descrisse l’apparente relazione inversa tra efficienza e uguaglianza come il «grande tradeoff». A quel tempo lo strumento principe per combattere la disuguaglianza era dato dalle politiche redistributive, attuate mediante imposte e trasferimenti progressivi. Si riteneva tuttavia che questi strumenti influissero negativamente sugli incentivi, minando la performance dell’economia, e che pertanto fosse possibile ridurre il livello della disuguaglianza solo a scapito dei risultati economici. Ma nuovi studi dimostrano che le nazioni possono combattere con successo la disuguaglianza senza danneggiare, e forse persino promuovendo, la performance economica.

Dalla fine degli anni settanta abbiamo assistito a un rallentamento della crescita economica e a quattro gravi recessioni economiche, compresa la peggiore dai tempi della Grande depressione; inoltre, quel poco di crescita che abbiamo avuto ha prodotto benefici sempre maggiori per i più ricchi, con redditi stagnanti per la maggioranza della popolazione e una progressiva erosione della classe media. Evidentemente, la trickle-down economics – che suggerisce di incrementare i redditi più alti, nella speranza che questo abbia ricadute favorevoli su tutti gli altri – non ha funzionato. Secondo il nuovo paradigma della trickle-up economics, invece, si avrebbero maggiori probabilità di successo ricostruendo l’economia a partire dalla classe media; in altre parole, uguaglianza e performance economica sarebbero complementari, non incompatibili.

Il ribaltamento di queste premesse tradizionali ha conseguenze profonde: ci dice che non possiamo dare per scontata una crescita condivisa e che non è necessario circoscrivere le iniziative volte a promuoverla per il timore che pregiudichino l’andamento dell’economia. Ricerche recenti hanno individuato numerosi canali attraverso i quali una maggiore disuguaglianza erode la performance economica, e le ragioni per cui una crescita più sostenuta del Pil non va necessariamente a vantaggio di ampi settori della popolazione.

Stando a questa nuova visione, le politiche focalizzate esclusivamente sui sintomi del malfunzionamento della nostra economia – per esempio quelle che mirano a correggere le manifestazioni più estreme della disuguaglianza – non cambieranno il modo in cui è strutturato il sistema economico, né affronteranno alla radice le ragioni per le quali la nostra economia sembra generare maggiore disuguaglianza rispetto a qualsiasi altro paese avanzato. L’esperienza degli ultimi trentacinque anni, in molte nazioni, suggerisce che è possibile riscrivere le regole della finanza, della governance aziendale e del commercio internazionale in modo da promuovere la crescita e la prosperità condivisa, anziché per incanalare maggiore ricchezza e opportunità verso chi ha già di più.

Le spiegazioni della disuguaglianza proposte dai modelli tradizionali sono incentrate sulla semplice teoria per cui ciascun individuo riceverebbe una remunerazione commisurata al contributo che apporta alla società. Le differenze tra i redditi individuali sarebbero quindi ascrivibili a differenze di produttività, abilità e impegno, e le variazioni della distribuzione del reddito sarebbero riconducibili, per esempio, a cambiamenti della tecnologia e degli investimenti in capitale umano e fisico. Seguendo questo tipo di analisi, la maggior parte della disuguaglianza emersa nell’ultima parte del xx secolo è stata attribuita a cambiamenti tecnologici skill-biased, cioè all’idea che il progresso tecnologico avesse premiato con un reddito più alto gli individui dotati di determinate competenze. Ipotizzando che queste ultime potessero essere ottenute attraverso l’istruzione, si pensava che nel lungo periodo il divario retributivo avrebbe spinto un maggior numero di giovani ad acquisire tali competenze ad alto valore aggiunto, con una conseguente diminuzione delle disuguaglianze di reddito. L’elevato premio all’istruzione rifletteva pertanto uno sfasamento tra le esigenze delle nuove tecnologie e le competenze della forza lavoro. Da queste influenti considerazioni sono scaturite specifiche raccomandazioni di politica economica: dotando una fascia più ampia della popolazione di quelle competenze si sarebbe potuto ridurre la disuguaglianza.

Ma queste teorie mostrano gravi carenze e limitazioni, come vedremo meglio in appendice. Il cambiamento tecnologico skill-biased, per esempio, non spiega perché molti lavoratori altamente qualificati hanno dovuto accettare mansioni di livello inferiore alle loro competenze; non spiega che cosa è accaduto alle retribuzioni nell’ultimo decennio, quando anche i lavoratori qualificati hanno visto peggiorare le proprie condizioni; e non spiega neppure l’aumento spropositato delle retribuzioni più elevate, come quelle percepite da amministratori delegati e professionisti della finanza, né il profondo divario che si è creato tra la produttività del lavoro e i salari medi. In passato, infatti, i salari sono cresciuti in linea con la produttività, ma nell’ultimo terzo di secolo questo non è accaduto.

Naturalmente la disuguaglianza e il modo in cui i benefici complessivi della crescita si distribuiscono tra la popolazione sono fenomeni complessi, dalle molteplici cause. Fra queste figurano sicuramente la tecnologia, la globalizzazione, i cambiamenti demografici e così via, e misurare con esattezza il contributo di tutti i fattori non è semplice. Ma nella realtà ognuna di tali forze ha portata globale. Se sono queste le principali determinanti delle disparità di reddito, tutti i paesi avanzati dovrebbero risentirne in modo simile. Invece, tra le economie avanzate gli Stati Uniti presentano la maggiore disuguaglianza, ragion per cui la spiegazione dei risultati che vediamo non può risiedere esclusivamente in fattori di carattere globale. Inoltre, non è vero che gli effetti delle forze globali sono al di fuori del nostro controllo: possiamo modificarne l’impatto con le politiche che decidiamo di adottare. Dati gli insuccessi dei modelli precedenti, serve una spiegazione alternativa dell’estrema disuguaglianza che vediamo oggi.

Un approccio emergente: l’importanza delle istituzioni e degli squilibri strutturali

Il nostro approccio istituzionalista si basa su una semplice constatazione: le regole e il potere sono importanti. Quest’approccio prende le mosse da un insieme di considerazioni derivate dalla ricerca accademica. Negli ultimi quarant’anni gli economisti hanno rivolto crescente attenzione ai limiti del modello economico standard, basato sulle ipotesi di informazione perfetta, concorrenza perfetta, mercati di rischio perfetti e perfetta razionalità, che date le sue diverse carenze non offre una descrizione accurata del reale funzionamento dei mercati nella nostra economia. Numerosi ricercatori, tra i quali io stesso, George Akerloff, Michael Spence, Jean Tirole, Daniel Kahneman, Oliver Williamson, Douglas North, John Harsanyi, John Nash, Richard Selten, Elinor Ostrom, Rob Shiller e altri hanno vinto il premio Nobel per il loro lavoro sulle imperfezioni e sulle asimmetrie informative, sulla teoria della contrattazione e sulle imperfezioni della concorrenza, sull’economia comportamentale e sull’analisi istituzionale. L’opera di questi economisti offre una prospettiva del tutto innovativa sul funzionamento dei mercati del lavoro, dei prodotti e della finanza, dimostrando in sostanza che sono necessarie istituzioni e regole per costringere i mercati a comportarsi in modo concorrenziale, a beneficio di tutti. Inoltre, anche in presenza di dinamiche concorrenziali, si possono generare «fallimenti del mercato», condizioni nelle quali è necessario un intervento pubblico per garantire risultati efficienti e socialmente auspicabili.

Questa teoria è suffragata da numerosi eventi reali. La crisi economica del 2008 e la seguente Grande recessione hanno dimostrato che la deregolamentazione non ha prodotto i risultati promessi. Le banche e il mercato sono sopravvissuti solo grazie all’intervento concertato di diverse autorità, sotto forma di un salvataggio pubblico da 800 miliardi di dollari. Inoltre, il sostegno accordato al sistema finanziario non ha avuto ricadute positive sui singoli mutuatari o sui lavoratori comuni, che tra il 2007 e il 2013 hanno perso più di 4 milioni di immobili e hanno visto diminuire il reddito reale mediano quasi dell’8 per cento.

In sintesi, sia l’approccio tradizionale sia quello istituzionalista spiegano una parte di ciò che è avvenuto negli ultimi anni, ma la seconda teoria, incentrata su fattori strutturali, appare sempre più convincente.

Ricchezza e disuguaglianza

Gli economisti stanno sviluppando una nuova serie di teorie per spiegare i profondi squilibri che vediamo nell’economia odierna, e in particolar modo l’aumento della ricchezza in relazione al reddito. In Il capitale nel xxi secolo Thomas Piketty sostiene che il rendimento del capitale sia maggiore del tasso di crescita dell’economia nel suo complesso (g) e che, di conseguenza, la ricchezza cresca più velocemente del reddito. Questo significa che, se il rendimento del capitale non diminuisce (e Piketty afferma che questo non è avvenuto), l’evoluzione storica del capitalismo ha quale inevitabile conseguenza una crescente disuguaglianza. I dati raccolti da Piketty e il suo contributo al dibattito economico sono indubbiamente importanti, ma riteniamo che la condizione non sia una spiegazione corretta o quantomeno completa di quella crescita incontrollata della ricchezza e della disuguaglianza del reddito che Piketty stesso ha documentato in modo così approfondito.

Non è possibile dare una spiegazione teorica o empirica del crescente divario tra reddito e ricchezza interpretandolo come risultato della continua accumulazione di beni capitali attraverso il risparmio originato dal reddito ordinario. Per di più, se l’incremento della ricchezza fosse dovuto a un aumento della quantità di capitale produttivo, si dovrebbe assistere anche a una crescita delle retribuzioni medie e a una diminuzione del rendimento del capitale. Nessuno di questi fenomeni è stato osservato.

Gran parte della crescita della ricchezza è ascrivibile a un aumento del valore delle immobilizzazioni, che non rispecchia un maggior valore produttivo. L’esempio più ovvio e comune è dato dall’incremento spropositato del valore degli immobili. Se il valore del patrimonio immobiliare cresce soltanto grazie al rincaro degli immobili e non a migliorie fisiche apportate agli stessi, l’economia non diventa per questo più produttiva: non sono stati assunti lavoratori, non sono stati pagati salari e non sono stati effettuati investimenti. In termini economici, tale guadagno è soltanto una «rendita fondiaria». Questo aumento del valore degli immobili è in parte una conseguenza naturale dell’urbanizzazione, ma si deve prevalentemente alla finanziarizzazione dell’economia e alla maggiore offerta di credito, credito che di norma va a coloro che già dispongono di ricchezze. Le rendite fondiarie sono la più ovvia fonte di rendita nell’economia, ma gli economisti ne hanno identificate molte altre, tra le quali i profitti di monopolio, la determinazione dei prezzi dei farmaci, i brevetti e altre forme di proprietà intellettuale.

Il valore capitalizzato delle rendite crea ricchezza: pertanto, se le rendite aumentano, aumenta anche la ricchezza. Se aumenta il potere monopolistico, aumentano i relativi profitti, e quindi anche il valore dei monopoli, e dunque la misura della ricchezza di un’economia. Tuttavia, la produttività dell’economia si riduce, e così anche il valore delle retribuzioni al netto dell’inflazione. Tutto questo si traduce in un aumento della disuguaglianza.

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FinanziarizzazioneSost. 1. La crescita del settore finanziario e del suo potere sull’economia reale, compresi i modi di agire, i valori e le pratiche con cui il settore finanziario ha influito sull’evoluzione del resto della società.

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Recenti lavori teorici individuano molti altri esempi di simili rendite da «sfruttamento», e mostrano come i cambiamenti delle regole che strutturano l’economia possano provocare (e verosimilmente hanno provocato) un aumento di tali rendite e del loro valore capitalizzato. Per esempio, se la crescente concentrazione del sistema bancario fa lievitare il numero di istituti too big to fail (troppo grandi per essere lasciati fallire), cioè di dimensioni tali da mettere a repentaglio, con un eventuale fallimento, l’intero settore finanziario, allora il valore delle banche tende ad aumentare, non perché le maggiori dimensioni siano sintomo di efficienza, ma perché viene spinto al rialzo dall’accresciuto potere di monopolio e dalle aspettative di un futuro salvataggio pubblico. In quest’analisi operiamo una distinzione tra capitale e ricchezza. Solo un aumento del capitale favorisce la crescita; infatti, dato che la ricchezza potrebbe aumentare quale semplice risultato di un incremento delle rendite, non è detto che la capacità produttiva dell’economia cresca di pari passo con la ricchezza misurata, anzi potrebbe persino diminuire. Per correggere gli squilibri economici, ridurre la disuguaglianza e promuovere una sana crescita dell’economia reale, dobbiamo attaccare queste rendite alla fonte.

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Ricerca di rendita (rent-seeking) Sost. La pratica finalizzata ad accumulare ricchezza non mediante attività che generano valore economico, ma sottraendola ad altri, spesso attraverso lo sfruttamento. Comportamenti di rent-seeking sono quelli delle imprese monopolistiche che applicano un sovrapprezzo sui loro prodotti (rendite di monopolio) e quelli delle società farmaceutiche che ottengono l’approvazione di leggi grazie alle quali possono praticare al settore pubblico prezzi molto elevati e offrire meno beni, servizi e reale innovazione sul mercato.

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Queste proposte politiche non sono dettate dall’invidia. I dati relativi agli ultimi trentacinque anni e la stagnazione delle retribuzioni che ha accompagnato la ripresa dalla crisi finanziaria del 2008 dimostrano che non possiamo stare bene se il nostro sistema economico non crea una prosperità condivisa. Questo studio spiega come possiamo migliorare il funzionamento della nostra economia, della nostra democrazia e della nostra società a beneficio di tutti gli americani.

Come siamo giunti fino a qui

Negli ultimi trent’anni, a volte in modo inosservato, l’economia, la politica e la società degli Stati Uniti hanno subìto profondi cambiamenti. Dove una volta c’era un equilibrio di poteri tra il settore privato, le istituzioni del mercato del lavoro e il governo, oggi troviamo forze che spingono verso una maggiore disuguaglianza. Questo significa una domanda carente e una crescita modesta, ma anche minori investimenti di lungo periodo nell’istruzione e in ricerca e sviluppo, e quindi minore innovazione.

Queste forze finiscono per compromettere il sogno americano, la convinzione che il duro lavoro e il rispetto delle regole siano premiati con il successo. Oggi le prospettive di vita dei giovani americani sono determinate prevalentemente dal reddito o dall’istruzione dei loro genitori. Una volta eravamo visti come il paese che offriva le maggiori opportunità di successo, oggi siamo una delle economie avanzate che offrono minore mobilità, perché il reddito di un bambino americano dipende dall’istruzione e dal reddito dei suoi genitori più di quanto accada nella quasi totalità degli altri paesi ricchi.

Questa incapacità di garantire eque condizioni di partenza e una vita di qualità ai nostri figli solleva particolari preoccupazioni. Il fatto che oggi negli Stati Uniti il 20 per cento dei bambini viva in povertà – un dato che sale al 38 per cento per gli afroamericani e al 30 per cento per gli ispanici – è un problema non solo morale, ma anche economico. Se non investiamo oggi nei nostri figli, nei nostri lavoratori e nella nostra nazione, in futuro saremo destinati a una crescita stentata, a una maggiore disuguaglianza e a minori opportunità.

L’economia statunitense era più equilibrata nei decenni precedenti al 1980, e in particolare nella fase centrale del xx secolo, quando funzionava straordinariamente bene. Di fronte al disastro della Grande depressione, Franklin D. Roosevelt attuò una serie di riforme politiche radicali per contrastare gli effetti travolgenti e dannosi di un sistema bancario e finanziario non regolamentato. La Federal Deposit Insurance Corporation garantì la sicurezza dei depositi bancari; il Glass-Steagall Act separò le banche di deposito dalle banche d’investimento, per far sì che i banchieri non potessero utilizzare fondi garantiti a livello federale per operazioni speculative ad alto rischio; la Securities and Exchange Commission promulgò nuove leggi finalizzate a proteggere gli investitori comuni e a contrastare la manipolazione dei mercati e l’insider trading; e il National Labor Relations Act conferì ai lavoratori il diritto di negoziare contratti collettivi. Questi provvedimenti crearono quello che John Kenneth Galbraith chiamò «potere compensativo», permettendo agli Stati Uniti di evitare una crisi finanziaria per mezzo secolo. In quell’età dell’oro del capitalismo, l’economia americana crebbe più velocemente che in qualsiasi altra epoca, con ripercussioni positive sui redditi a tutti i livelli, ma soprattutto su quelli più bassi, che aumentarono più rapidamente dei redditi alti.

Naturalmente, persino nell’età dell’oro del capitalismo i mercati e l’economia non erano perfetti. La discriminazione sistematica ai danni delle donne e delle persone di colore relegava ampi segmenti della popolazione in occupazioni a basso salario, come i lavori domestici o di custodia, senza la tutela dei sindacati. Gli afroamericani erano esclusi dall’istruzione superiore e dai programmi di finanziamento immobiliare finalizzati a offrire opportunità alla classe media.

Le privazioni affrontate da una generazione produssero effetti sulle generazioni successive. All’inizio degli anni cinquanta, le lotte intraprese dal movimento per i diritti civili permisero di fare qualche progresso sul fronte della desegregazione, della lotta alla discriminazione e dell’accesso al voto. In quel periodo si registrò un aumento della mobilità, ma le conquiste fatte non furono sufficienti. Il progresso fu ostacolato e la mobilità finì per arrestarsi.

Negli anni ottanta, obbedendo alle teorie della supply-side economics sviluppate nel decennio precedente sotto la spinta dell’ideologia conservatrice e di alcuni gruppi di interesse, le autorità statunitensi avviarono la deregolamentazione dell’economia. A questo si accompagnò una riduzione delle aliquote fiscali più elevate e delle imposte sui redditi da capitale. Negli anni novanta l’imposta sulle plusvalenze fu ridotta ulteriormente. Altri tagli delle aliquote massime e delle imposte sulle plusvalenze e sui dividendi sono stati apportati all’inizio del secolo. Tutto questo, nelle intenzioni dei promotori, avrebbe dovuto stimolare il lavoro e il risparmio; si ipotizzava infatti che l’alleggerimento della tassazione avrebbe dato impulso alla crescita e che tutti ne avrebbero beneficiato. Reagan sosteneva persino che l’espansione economica avrebbe avuto una portata tale da accrescere il gettito fiscale. Gli esiti sono stati deludenti: gli effetti previsti dalla supply-side economics non si sono materializzati, le entrate fiscali sono crollate e abbiamo patito meno crescita e più instabilità.

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Teorie della supply-side economics Sost. Teorie che si concentravano sull’importanza di stimolare l’offerta aggregata – per esempio creando condizioni più favorevoli per le imprese e gli investitori, o riducendo le imposte sui redditi nella speranza di generare una maggiore offerta di lavoro –, in contrapposizione alle teorie keynesiane, incentrate sulla domanda. I fautori della supply-side economics ipotizzavano che il miglioramento degli incentivi derivante dal calo delle aliquote fiscali e dalla minore regolamentazione dell’attività di impresa avrebbe favorito un aumento dell’occupazione, degli investimenti e dell’iniziativa imprenditoriale, e che questo a sua volta avrebbe innescato una crescita più robusta con ricadute positive sull’occupazione, sui redditi e sul gettito fiscale. I fatti hanno tuttavia smentito le previsioni di queste teorie, che per questo, oggi, godono di scarso credito tra gli economisti, pur restando popolari negli ambiti politici e ideologici conservatori.

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Nei decenni a cavallo del 2000 sono avvenuti altri cambiamenti radicali. In quel periodo la deregolamentazione del settore finanziario ha spinto le imprese a privilegiare i profitti di breve periodo (short-termism o «breveperiodismo»). Gran parte della crescita osservata negli anni novanta si è dimostrata instabile, costruita su bolle speculative, prima nel comparto tecnologico e poi in quello immobiliare. La «grande moderazione» si è rivelata un fantasma: invece di nuove conoscenze economiche (per esempio riguardo alla conduzione della politica monetaria) e di una migliore gestione dell’economia, abbiamo avuto maggiore instabilità, una crescita più lenta e un aumento della disuguaglianza.

Nel frattempo l’innovazione tecnologica e la globalizzazione hanno portato a una maggiore integrazione dell’economia mondiale. Questi progressi avrebbero dovuto migliorare il benessere generale senza minacciare il tenore di vita della classe media, il che sarebbe probabilmente avvenuto se il processo fosse stato gestito in maniera più accorta. Ma il pensiero dominante postulava che il libero mercato avrebbe generato benefici per tutti, e questa idea si è rivelata dolorosamente falsa. Mentre la globalizzazione e la tecnologia favorivano l’interdipendenza dei mercati mondiali, la corsa a risparmiare sui costi del lavoro, senza le dovute tutele, ha comportato negli Stati Uniti una perdita significativa di posti di lavoro e forti pressioni al ribasso sulle retribuzioni. Unendosi all’accresciuta finanziarizzazione dell’economia, queste forze hanno contribuito al declino dell’industria manifatturiera verticalmente integrata, che riuniva diversi stadi del processo produttivo sotto un unico tetto. Tutti questi fattori sono culminati nell’attuale assetto dell’economia statunitense, caratterizzato da rendite elevate, sfruttamento rampante, bassi salari e scarsa occupazione.

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BreveperiodismoSost. Il modello di governance aziendale, affermatosi in seguito agli anni ottanta, che privilegia i profitti e i rendimenti azionari di breve periodo in luogo dei risultati di lungo periodo, ottenuti anche mediante investimenti a lungo termine in capitale umano e ricerca orientati alla sostenibilità, all’innovazione e alla crescita.

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Oggi molti ripongono le proprie speranze nelle innovazioni rivoluzionarie degli anni novanta e duemila: le tecnologie diffuse offerte da Internet, le promesse delle nanotecnologie e le vaste potenzialità della biotecnologia e della medicina personalizzata. Finora abbiamo assistito alla crescita di alcuni settori, alla nascita di imprese solide e all’accumulazione di ingenti fortune grazie al potere di Internet. Ma l’interrogativo più importante, sotto il profilo economico, è se queste tecnologie possano contribuire a generare più crescita, più opportunità e più benessere, con benefici distribuiti tra un maggior numero di persone. Internet, con il suo potenziale innovativo ancora inespresso, potrà divenire nel xxi secolo l’equivalente di ciò che il settore manifatturiero è stato nel Novecento per gli americani di tutte le fasce di reddito? O concorrerà invece ad accrescere ulteriormente le già elevate rendite che caratterizzano l’economia odierna? Le tecnologie di rete hanno già prodotto molti benefici, ma non sono ancora diventate un motore di prosperità ampiamente condivisa. In effetti, alcune nuove tecnologie potrebbero favorire una maggiore concentrazione dei redditi, della ricchezza e del potere.

In questo risiede la nostra sfida: affinché le promesse dell’innovazione si realizzino, dobbiamo prima di tutto risolvere i problemi che abbiamo ereditato da trentacinque anni di pensiero supply-side e dalle regole che hanno modificato tutti gli aspetti della nostra economia e della nostra società, generando una crescita debole e una disuguaglianza senza precedenti.

La nostra lettura dell’attuale realtà economica

L’economia statunitense del xxi secolo è contraddistinta da basse retribuzioni e rendite elevate. Tuttavia, le regole e le dinamiche di potere insite nel sistema economico odierno non sono sempre visibili. Possiamo immaginare la lenta crescita dei redditi e l’aumento delle disparità economiche come un iceberg:

La punta visibile dell’iceberg è la nostra percezione quotidiana della disuguaglianza: retribuzioni modeste, indennità insufficienti e un futuro incerto.

Appena sotto il pelo dell’acqua troviamo i fattori che generano questa percezione. Si tratta di elementi difficili da vedere, ma di importanza vitale: parliamo delle leggi e delle politiche che definiscono la struttura dell’economia e creano disuguaglianza. Tra queste vi sono un sistema fiscale che incamera un gettito insufficiente, scoraggia gli investimenti a lungo termine e premia la speculazione e i guadagni immediati; una regolamentazione carente e un’applicazione permissiva delle norme che dovrebbero disciplinare l’attività di impresa; e l’abbandono delle politiche e dei provvedimenti mirati al sostegno dei minori e dei lavoratori.

Alla base dell’iceberg vi sono le grandi forze globali che condizionano l’evoluzione di tutte le economie moderne: fattori come la tecnologia, la globalizzazione e le tendenze demografiche. Si tratta di forze con cui bisogna fare i conti, ma anche le più potenti tendenze globali, malgrado l’indiscusso impatto economico, possono essere governate e orientate alla produzione di risultati migliori.

La punta dell’iceberg è rappresentata da ciò che vediamo nella nostra esperienza quotidiana. Questa dimensione visibile della disuguaglianza costituisce l’aspetto più importante per gli elettori e i politici, ma è alimentata da una moltitudine di forze strutturali che determinano gli squilibri di potere economico e politico e creano vincitori e vinti. Proprio come la parte sommersa di un iceberg può causare l’affondamento di una nave, così oggi questa massa di regole sta mandando a picco la classe media americana.

Spesso le autorità, gli osservatori e il pubblico si concentrano solo sugli interventi che interessano la punta visibile dell’iceberg. Nel nostro sistema politico le grandi proposte per redistribuire il reddito ai più deboli e contenere l’influenza dei più potenti si riducono a provvedimenti modesti, come i crediti di imposta limitati ai contribuenti a basso reddito o le norme sulla trasparenza delle retribuzioni dei dirigenti. Inoltre, a volte le autorità sminuiscono il valore di qualsiasi intervento, sostenendo che le forze alla base dell’iceberg sono troppo imponenti e impossibili da gestire, che la globalizzazione e i pregiudizi, i cambiamenti climatici e la tecnologia sono forze esogene su cui non è possibile intervenire. Secondo questa scuola di pensiero, se avessimo controllato gli eccessi nel campo del credito immobiliare, il settore finanziario avrebbe comunque trovato altre strade per creare una bolla; e se cercassimo di controllare le retribuzioni dei dirigenti, le aziende troverebbero sistemi più sofisticati per remunerare comunque gli amministratori delegati.

Secondo questa visione disfattista, le forze alla base della nostra economia non possono essere gestite. Noi non siamo d’accordo. Se non agiamo sulle leggi, sulle regole e sulle forze globali, potremo fare ben poco. La premessa di questo studio è che possiamo rimodellare la parte centrale dell’iceberg, cioè le strutture intermedie che determinano il modo in cui si manifestano le forze globali.

Questo significa che il modo migliore per garantire sicurezza e opportunità economiche è intervenire negli ambiti tecnocratici del diritto del lavoro, della governance aziendale, della regolamentazione finanziaria, degli accordi commerciali, della discriminazione codificata, della politica monetaria e dell’imposizione fiscale.

In questo libro poniamo l’accento sulle regole dell’economia e sul potere di stabilirle, ma questo non significa che chiediamo allo stato di farsi da parte. È difficile che le autorità pubbliche possano chiamarsi fuori dai giochi. Come già è stato detto, i mercati non operano in una condizione di vuoto; è lo stato che ne determina la struttura e definisce le norme che ne regolano il funzionamento. Le regole e le istituzioni creano il contesto dell’attività economica, e il modo in cui le regole vengono formulate, aggiornate e applicate si ripercuote su tutti.

La struttura di questo rapporto

Se l’economia non funziona come dovrebbe o potrebbe, allora siamo in grado di migliorare la crescita e l’uguaglianza attingendo a una gamma di soluzioni molto più ampia di quella a cui si ricorre abitualmente. La disuguaglianza del reddito e delle opportunità economiche ha raggiunto un livello tale per cui non basta più attuare interventi superficiali che affrontano i problemi visibili, come un aumento modesto del salario minimo o una riforma volta a favorire l’accesso all’istruzione. Per quanto importanti, queste misure dovrebbero essere considerate più come palliativi di breve termine, che garantiscono un sollievo meramente sintomatico. Occorre invece un approccio molto più articolato, che migliori la distribuzione del reddito prodotta dal mercato e arricchisca le opportunità per tutte le generazioni. Nell’ambito di questo processo, è essenziale rimediare alla crescita smisurata del sistema finanziario e agli effetti che ha prodotto sui comportamenti e sui processi decisionali del settore privato.

In questo rapporto ci occupiamo di quelle che a nostro avviso sono le principali cause della disuguaglianza. Nel prossimo paragrafo, «Le regole attuali», spieghiamo come le politiche pubbliche abbiano dato un contributo determinante all’aumento della disuguaglianza e dell’insicurezza. I cambiamenti radicali delle regole del settore finanziario, della governance aziendale e del diritto del lavoro, avviati negli anni ottanta e novanta, hanno dato risultati deludenti. Le modifiche nella condotta e negli obiettivi della politica monetaria e fiscale hanno dato la priorità ai più ricchi. Al contempo, le iniziative volte a mantenere la promessa americana di inclusione si sono bloccate e le strutture discriminatorie sono rimaste al loro posto. Tutto questo è il risultato di scelte politiche deliberate che promettevano di stimolare la crescita, ma che di fatto hanno creato un’economia più diseguale e più debole.

A causa della crescente disuguaglianza ci troviamo oggi sull’orlo di una crisi, che però è diversa da quella scoppiata nel 2008, quando l’alternativa a un’azione correttiva sembrava il crollo immediato dell’economia. Questa è una crisi meno percettibile, ma le decisioni che prendiamo oggi condizioneranno la natura della nostra economia e della nostra società per gli anni a venire. Se imboccheremo la strada sbagliata, avremo davanti a noi un futuro di grande disuguaglianza e risultati economici deludenti. Se prenderemo la strada giusta, riusciremo non solo a generare benefici immediati – preservando lo stile di vita da classe media al quale così tanti americani aspirano – ma anche a costruire un’economia futura caratterizzata da una crescita ampiamente condivisa. Nel capitolo conclusivo, «Riscrivere le regole», descriviamo le soluzioni politiche necessarie per rispondere a questa crisi, le riforme che servono a riconfigurare le strutture di fondo della nostra economia e i programmi che potrebbero consentire a un numero maggiore di americani di vivere la vita che hanno cercato di conquistare con grande fatica.

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