Don Masino è qualcosa di più di uno stereotipo

L’occasione persa da Bellocchio nell’affidarsi allo stereotipo del Buscetta traditore eroico

buscetta_tommaso3Peccato, sembra un’occasione persa. Marco Bellocchio, annunciando il suo prossimo film, cade nello stereotipo romantico di un Tommaso Buscetta “traditore eroico” banalizzando, proprio perché si affida a uno stereotipo, una figura che va ben oltre la semplice appartenenza a Cosa nostra e al suo pentimento, o meglio alla sua collaborazione con la giustizia italiana e statunitense. Certo, lui è Marco Bellocchio e io sono nessuno. Ma forse proprio essere Bellocchio gli ha impedito di andare oltre quell’immaginario così caro a chi ha costruito una verità da tv di Stato. Buscetta è stato tutto e il contrario di tutto. Potremmo perfino dire che fu un eroe della Resistenza (per paradosso) vista la sua partecipazione da armato alle tre giornate di Napoli. Buscetta uomo vicino ai servizi – non italiani?-, mediatore per innumerevoli poteri, a disposizione di progetti eversivi come il Golpe Borghese, ambasciatore e non solo per Cosa Nostra in mezzo mondo dove il potere non era solo mafioso e i soldi erano soprattutto un’arma per la conquista del potere. Tutto e il contrario di tutto. Mai solo cosa nostra (anche se lui fu l’inventore con Joe Banana nel ’57 della Commissione). Le sue tante verità le sue innumerevoli versioni.
Ci ho lavorato sopra per anni e tante volte ho rischiato di cadere nello stereotipo in cui sembra essere precipitato Bellocchio. Ma io non sono il grande regista, solo uno che scrive e che ha fatto un libro – un romanzo e non un’inchiesta, “In morte di Don Masino” uscito il 28 aprile scorso per Imprimatur editore. Non lo leggerà, probabilmente. Ma se lo facesse avrebbe l’occasione, ne sono certo, di sgretolare lo stereotipo rassicurante che sembra essere intenzionato a trasferire nel suo prossimo film.
Parlare di Buscetta affidandosi solo al suo presunto eroico tradimento nega la complessità della sua vicenda umana e criminale. Nega i suoi rapporti con altri poteri forse ben più decisivi di quelli “di sangue”. Nega il ruolo che ha avuto – e non si tratta di una narrazione “romanzata” ma da quello che emerge dalle contraddizioni e dalle carte – nella storia non solo italiana da quando adolescente prese un fucile e con qualche altro picciotto ‘sperto nel ’43 salì a Napoli per sparare ai tedeschi e poi dei suoi anni da “vetraio” prima a Buenos Aires e poi a Rio de Janeiro che all’epoca del suo tentativo imprenditoriale erano di fatto le sedi mondiale di arruolamento di spie e criminali di guerra e dei suoi rapporti all’epoca con altri espatriati (corsi e marsigliesi) collegati a chi stava gestendo il traffico di stupefacenti e di esseri umani. Ma solo Cosa nostra. Che ne dica la storia ufficiale. E lo stereotipo.
A Bellocchio invierò il libro. E lo inviterò a una delle repliche dello spettacolo teatrale su cui con altri stiamo lavorando. Forse troverà stimoli per non farsi stritolare dall’ufficialità che nega l’arte e la testimonianza.

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Pietro Orsatti

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